Milano piazzale Loreto e via Porpora


Francesco Tadini, Milano 27 febbraio 2019, Stazione Garibaldi, Light's memory

Francesco Tadini, Milano 27 febbraio 2019, Stazione Garibaldi, Light’s memory

Milano: piazzale Loreto e via Porpora. Estate 2019. Precisamente primo luglio. Segnalo – questo è il blog più pazzo del mondo, sapevatelo – asfalto molle adatto a macro-fotografia di impronte dei cavalletti motoristici. Invoglio a non perdere l’occasione di seguirmi tra gli incroci stradali di viale Lombardia e via Lulli. Chiedo consiglio a un passante per scegliere il brano musicale di sottofondo, da loopparmi in cuffia.

Sono le quattordici e tutto si lessa. Io cotechino penso a un passato glorioso in cima alle vette, al fresco, con quel mio amico d’infanzia. Il Maurizio. Io biancostato desidero rendermi utile alla memoria dell’asfalto molle. Sarebbe sano pubblicare un paio di tomi fotografici sul tema. Con un progetto – come dicono alcuni esperti di letture portfolio – a prova di bomba.

Cambio un obiettivo in favore di una visione più ampia. Chiudo il diaframma. Mi voglio tutto a fuoco, io. Poco ma inciso. Come l’onda di un pensiero sulla battigia mi lascio andare e spumo, spumo. Quattordici e trenta. Sono dei pesci.

Oroscopo estate 2019: non credere a chi ti vuol far credere di non credere. Salute: così così, con gastrite in altalenante aumento. Soldi: boh, va bene così, al limite. Figlia Francesca – si, quella Francesca Tadini che porta il mio cognome e che non si fa vedere da dieci anni – in dissolvenza a nero. O a bianco: vedi tu, lettore.

Sono le quindici e io pollo ho fatto già abbastanza brodo. Io gallina vecchia che inseguo la “quasi-felicità” che consiste, principalmente, nell’allontanarmi da ciò che mi ha respinto. Io vacca munta dalla vita. Io airone senza ali alla riva del Po’. Io, sbiadito ricordo di un Francesco Tadini desiderante. Io merda.

Per oggi può bastare. Poi riprendo. Scriverò un tutorial su come non farsi passare la gastrite.

Umberto Eco, Emilio Tadini, Gae Aulenti: essere o non essere


Umberto Eco, Emilio Tadini, Gae Aulenti: essere o non essere. Due anni fa, nelle colline del Montefeltro dovutamente innevate, per far arrivare la mezzanotte del 31 dicembre, si era improvvisata una situazione pseudo televisiva, tra l’opera dei pupi, Brecht e Santoro. Emilio Tadini, travestito da Shakespeare mediante un tupé in cartone disegnato da Tullio Peri­coli, illuminato da un faro manovrato da Gae Aulenti, dialogava con dei burattini (animati da me), uno dei quali era Amleto che, a un certo punto poneva la fatale domanda “essere o non essere?”…. – Da La bustina di Minerva di Umberto Eco de L’Espresso del 23 maggio 1996.

Umberto Eco ritratto da Tullio Pericoli

Umberto Eco ritratto da Tullio Pericoli

Allora Emilio Tadini fingeva di aver aperto un sondaggio, e tirava fuori i risultati: tanti essere, tan­ti non essere, e una buona percentuale di “non so”. Insomma, un giochetto, tanto per sostituire la tombola.
Poi Tadini ha raccontato la storia a Renato Mannheimer il quale, uomo di spirito e sondaggista compulsivo, ha subito definito la domanda amletica la “gran madre di tutti i sondaggi” e si è messo davvero al lavoro, per due aiuti, controllando le risposte di un campio­ne 1995 con quelle di un campione 1994.1 risultati li troverete sul numero di maggio di “Leggere”.
Mannheimer commenta con grande serietà le tabelle e i diagrammi, dove appaiono classificazioni per sesso, per età, per titolo di studio, per dimensioni eli città, per preferenze politiche. Ne emerge per esempio (e mi limito a pochi accenni, per non togliervi il pia­cere di altre scoperte) che nel 1995 un intervistato su cinque rispondeva “non so”, mentre nel 1996 l’incertezza affet­ta un intervistato su tre, indicando for­se uno stato crescente d’insicurezza. In genere si sceglie l’essere tra i 18 e i 29 anni, mentre la percentuale decresce verso gli ultrasessantenni. Ma la scelta dell’essere cresce col titolo di studio: solo 57 per cento di chi ha la licenza ele­mentare, 78 per cento di laureati.
Dal punto di vista politico, tra coloro più desiderosi di essere appaiono gli aderenti alla lista Pannella, seguiti da Forza Italia, mentre il numero maggiore tra coloro che scelgono il non essere si trova in Rifondazione Comunista. I “non so” abbondano tra i seguaci di Dini e di Maccanico.

L’indagine andrebbe certo allargata, includendo per esempio le indispensabili casalinghe di Voghera; poi verrebbe la pena di estenderla ad altri paesi; e sarebbe auspicabile introdurre la variante religiosa (che cosa risponderebbero i buddisti?). Vedrei anche con favore una interpretazione dei risultati fatta da Vattimo, Severino, forse Cac­ciari!, escludendo i filosofi analitici, che darebbero al verbo puro valore copulativo e chiederebbero subito chi è cosa.

Il sondaggio è stato un gioco, ma come tutti i giochi insegna qualche cosa. Mannheimer osserva che, se i laureati scelgono l’essere, non è che coloro di cultura elementare scelgano il non essere per ragioni metafisiche; scelgono in buona percentuale il “non so”, e la ragione è evidente: il quesito faceva riferimento esplicito ad Amleto, e quindi si può inferirne che i meno colti non abbiano capito bene la domanda (o abbiano ritenuto irrilevante un gioco libresco) e abbiano pertanto mandato al diavolo l’interlocutore. Visto però che alla fin fine l’essere prevale in ogni caso, intorno al settanta per cento, direi che di fronte a un quesito così vago la maggioranza scegliesse una risposta in positivo, magari pensando istintivamente di dover scegliere tra vivere o morire.

D problema è infatti quanto giochi in un sondaggio la competenza semantica dei soggetti. Se si chiede a qualcuno se preferisce la Coca-Cola o la birra (oppure Berlusconi o Prodi), alla paro­la corrisponde nella mente degli inter­vistati un oggetto riconoscibile, e più o meno uguale per tutti. A mano a mano che i termini diventano più generici (per esempio nel caso di scelta tra libe­rismo e dirigismo) si tratta di sapere che cosa l’intervistato intende con quel termine. Se poi si mettono in gioco i due concetti più vasti e imprevedibili di tut­ta la storia dei pensiero, le risposte sono incontrollabili, perché – come si suol dire – tante teste tante idee.

La domanda posta dalla squadra di Mannheimer suonava: “Lei sa che in un famoso dramma di Shakespeare, Amleto, il protagonista a un certo punto si chiede Essere o non essere. Se lei per gioco dovesse rispondere direbbe che…”. Se fosse scomparso il riferimento Shakespeare e l’accenno al carattere giocoso dell’esperimento, che cosa sarebbe successo? Non lo so, ma evidentemente dovrebbe cambiare il modo in cui si interpretano le risposte. Quanti avranno risposto “non essere” o “non so” proprio perché si mettevano nei panni di Amleto?

Di più: quell’inizio “Lei sa…” metteva subito gli intervistati nell’obbligo di rispondere qualche cosa, per mostrare di sapere. Diverso sarebbe stato chiedere in modo brusco “preferisci essere o non essere?”. Come si vede, anche un gioco può indurre a qualche riflessione sulla natura dei sondaggi.

Teatro Franco Parenti: La deposizione di Emilio Tadini


Teatro Franco Parenti: La deposizione di Emilio Tadini con Anna Nogara e la regia di Andrée Ruth Shammah per una messa in scena epocale. Einaudi pubblicò il libro nel 1997, nella collezione di teatro. Qui la recensione di Franco Quadri per il quotidiano la Repubblica del 16 aprile 1997.

Anna Nogara

Teatro Franco Parenti, Anna Nogara in La deposizione di Emilio Tadini per la messa in scena di Andrée Ruth Shammah nel 1997

Un titolo sacro da gran pala d’altare, magari dedicato a Testori. E invece no, La deposizione di Emilio Tadini ci conduce diritti in tribunale, dove una donna si deve discolpare dell’accusa d’aver ucciso sette ex amanti per impossessarsi dei loro averi. Una serial killer? Lei si autodefinisce «un mostro normalissimo», che per alimentare le inclinazioni della stampa si presta a venir catalogato “Madama Barbablù”. Può quindi rientrare negli schemi della favola e a questi intende riportarci la guida di Andrée Ruth Shammah, che l’ha commissionata, ribadendo l’ambiguità del titolo che ritorna in tutta la storia.
Le ultime parole pronunciate sono Qui tutto è finto tranne la passione; e le ritroviamo scritte, con la calligrafia usata da Valerio Adami nei suoi quadri, sulle pare­ti della nuova minisala aperta all’interno del Teatro Franco Pa­renti per iniziativa di Gian Maurizio Fercioni, attorno a bianchi pi­lastri, sopra la plastica che copre il pavimento, lasciando vedere al­tri locali da uno squarcio in un muro e da una porta, oltre alla gabbia che nell’andito ospita all’inizio e alla fine l’imputata – belva e un paio di agenti.
Ma il consesso che si ritrova as­siepato su tre lati (a occhio un’ot­tantina di persone) potrebbe an­che dare l’impressione d’un salot­to.

La versione Einaudi e quella teatrale del testo di Emilio Tadini

Emilio Tadini La deposizione

Emilio Tadini, La deposizione, in scena al Teatro Franco Parenti nel 1997 e pubblicato da Einaudi

In effetti, a differenza della versione pubblicata da Einaudi, “la deposizione” rappresentata non rientra più in un processo, ma consiste in una sorta di precedente prova generale da teatro, senz’altri referenti che gli spettatori giurati. L’eroina di Emilio Tadini ha così la possibilità di costruirsi un ritratto che, asserendo di mirare ai fatti, bada soprattutto alle opinioni. Mette in fila parole che resistono alla facilità dell’abbandono narrativo per disperdersi nei particolari compiaciuti: chiacchiere e vanterie montati per guadagnarsi il consenso dei giudici simulati.

Quest’altra doppiezza del testo trova una conferma nel fatto che, se le accuse sono solo indiziarie (sette ex amanti scomparsi) le figure dei presunti assassinati non si concretizzano nel racconto: so­no tutte uguali nei comportamenti, evocate al plurale dalla «giusti­ziera-vittima», che se ne dice sfruttata sentimentalmente e abbandonata; parla di legittima difesa e l’eliminazione e gli «squar­tamenti» li propone come episodi
4 assurdi in termini da telenovela. Di conseguenza quando alla fine si presenta a chiedere la sentenza, la protagonista potrà essere indif­ferentemente assolta o condannata, ma anche rilasciata come affabulatrice mitomane da teatro.

Con Andrée Ruth Shammah come prima indagatrice di ogni suo gesto, lambendo le pareti e indagando a sua volta lo spazio da faina, men­tre il musicista Michele Tadini la fa seguire da echi strascicati delle battute ap­pena dette, Anna Nogara si dipin­ge addosso il personaggio con or­goglio e ansia masochista, e con­ferma, dopo il felice lavoro su Gadda dello scorso anno, di tro­vare veramente una propria di­mensione ideale nell’ambiente ri­dotto. Si fa quindi carnefice e vittima per il suo pubblico, con una scioltezza di comunicazione che non dimentica mai l’autoironia ma sa toccare con asciuttezza il tragico di una mediocrità quotidiana; padroneggia con autorità l’ambiente e spia con silenzi avidi le reazioni individuali, lasciando via libera alla passione nella lotta con la finzione.

Teatro Franco Parenti: La deposizione di Emilio Tadini con Anna Nogara e la regia di Andrée Ruth Shammah

Franco Quadri

Robinson Crusoe di Daniel Defoe – grandi libri


Robinson Crusoe

Robinson Crusoe, illustrazione di un’edizione del 1720 uscita ad Amsterdam

Robinson Crusoe di Daniel Defoe, apparso il 25 aprile del 1719. È uno dei libri più famosi di tutte le letterature, e forse quello che, dopo la Bibbia, ha avuto il maggior numero di edizioni. Titolo originale The Life and Strange Surprising Adventwres of Robinson Crusoe, of York, Mariner – in italiano: Vita e strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, di York, Marinaio.

Origini di Robinson Crusoe

Le origini storiche del tema di Robinson sono note: in quegli anni aveva suscitato grande scal­pore in Inghilterra l’avventura del marinaio Selkirk che era stato abbandonato nel 1705 sull’isola di Juan Fernandez, al largo delle coste cilene. Nel 1709 il capitano Rogers, ardito navigatore che stava compiendo il giro del mondo, lo aveva liberato, trovandolo dopo quattro anni di solitudine ridotto a uno stato semi-selvaggio. Il capitano Rogers raccolse in volume il racconto del suo periplo e subito l’interesse dei lettori si concentrò sul Racconto di come Alessandro Selkirk vivesse quattro anni e quattro mesi solo sopra un’isola. Daniel Defoe era ormai prossimo alla sessantina; nella sua vita rotta e avventurosa aveva molto scritto, per lo più nel campo della polemica politica o puritana: ma nessun romanzo era finora uscito dalla sua penna. Aveva delle figlie da maritare e si trovava nella urgente necessità di realizzare con la sua penna qualche grosso guadagno. La popolarità raggiunta dall’avventura del Sel­kirk gli fece pensare quale argomento di viva attualità sarebbe stato il racconto della vita di un naufrago sopra un’isola deserta. Si recò dall’edi­tore Taylor e, come fece poi sempre, gli sottopose un titolo-sommario: La vita e le strane, sor­prendenti avventure di Robinson Crusoe, di York, marinaio, che visse ventotto anni comple­tamente solo in un’isola disabitata sulla costa dell’America, vicino alla bocca del gran fiume Orenoco, essendo stato gettato a riva da un naufragio nel quale tutti gli uomini perirono tranne lui solo; con un racconto di come, alla fine, venisse altrettanto stranamente liberato da dei pirati: scritto da lui stesso . H Taylor accettò di dare a Daniel Defoe, su questo canovaccio, la commissione di un volume di trecento cinquanta pagine; sul frontespizio del quale il nome dell’autore non apparve: perché (come accadde anche per le successive autobiografie fittizie stese da Daniel Defoe: Moli Flanders, Roxana, Il colonnello Jack e La peste di Londra) il pubblico doveva credere di leggere delle memorie autentiche. Da ciò il tono semplice e documentario. Robinson Crusoe (Crusoe era il nome di un vecchio compagno di scuola dell’au­tore) è un ragazzo animato da un ostinato desiderio di avventure.

L’isola di Robinson Crusoe

Malgrado le sagge esortazioni paterne, che esaltano un tono medio di vita come il più adatto alla felicità terrena, egli a diciott’anni scappa di casa, si imbarca a Hull, naufraga a Yarmouth, si imbarca di nuovo, viene catturato da un pirata barbaresco di Salò, vi resta due anni, scappa in barca con il piccolo schiavo Xury, lo rivende a un capitano portoghese, passa con questo al Brasile, diventa piantatore, si imbarca per la Guinea, naufraga presso la foce dell’Orenoco sopra un’isoletta deserta, e si trova a essere l’unico superstite del disastro. Si inizia qui l’epi­sodio propriamente robinsonesco, soprattutto du­rante il periodo di completa solitudine, fino alla comparsa del servizievole (e convenzionale) sel­vaggio Venerdì, che Robinson salva dai suoi com­pagni cannibali. Seguono altre avventure, fino alla liberazione e al viaggio di ritorno. Il successo strepitoso ottenuto dal libro spinse l’autore a dargli subito un seguito.

Le ulteriori av­venture di Robinson Crusoe

Il secondo volume, della stessa mole del primo, si intitolò: Le ulteriori av­venture di Robinson Crusoe, costituenti la seconda ed ultima parte della sua vita, e delle strane e sor­prendenti memorie dei suoi viaggi attorno al globo, scritte da lui medesimo. Questo secondo volume apparve nell’agosto dello stesso anno 1719: fu dunque scritto in pochi mesi. Il successo fu anche questa volta grandissimo. Robinson Crusoe fa qui ritorno alla sua isola, ormai colonizzata. I coloni si tro­vano a guerreggiare con dei cannibali che ten­tano conquistarla. Il resto del volume narra un grande viaggio di Robinson a Madagascar, nelle Indie, in Cina, e il suo ritorno verso l’Europa, attraversando tutta l’Asia da Pechino ad Arcan­gelo. È da notarsi che salvo qualche scappata sul continente in gioventù, Daniel Defoe non uscì mai dall’Inghilterra: è dunque il fondatore della stirpe rigogliosa degli scrittori di viaggio che non si muovono da casa: categoria che, con Jules Verne, doveva raggiungere l’apogeo della sedentarietà. La parte relativa ai viaggi piacque moltissimo, al punto da offuscare il vero nucleo originario del Robinson. Ci volle l’Emilio di Rousseau per riportare l’attenzione su quella che è la vera idea  animatrice dell’opera: la lotta dell’uomo solo nell’immenso creato, l’affascinante ricostruzione dei primi rudimenti della civiltà umana in un’isola deserta, senz’altro testimonio che la propria coscienza, senza altri alleati che la propria energia, destrezza, ingegnosità. Era un’epoca di potenti individualità mercantili e religiose, un secolo in cui per gli Inglesi la Bibbia si alleava volentieri al libro dei conti.

La fortuna letteraria di Robinson Crusoe

Robinson Crusoe crede fermamente in Dio e negli affari: è naturale che milioni di lettori si riconoscessero in lui. Una così strepitosa fortuna libraria doveva tentare la cupidità degli imitatori, che pullularono per oltre un secolo.
In Inghilterra il personaggio prese una tinta mistica con Philip Quarll (la cui storia, pubblicata nel 1727, si attribuisce a un certo Edward Dowington), che vis­se cinquant’anni senza l’aiuto di altri uomini in un’isoletta dei Mari del Sud, e con Peter Wilkins (la cui storia, pubblicata nel 1751, è opera di Ro­bert Paltock, 1697-1767), nato da un incrocio di Robinson con Gulliver. In Francia parecchi romanzi, tra cui I sorprendenti effetti della simpatia (Les effets surprenants de la sympathie) di Marivaux, svolsero situazioni derivate dal Robinson Crusoe.
Nel 1813 uscì a Zurigo II Robinson svizzero di Wyss, che ebbe grande popolarità come lettura per ragazzi; mentre nel 1779 Robinson il giovane di Campe era stato tradotto dal tedesco in molte altre lingue e aveva quasi superato la fama del vero Robinson. In quest’opera la parte più ca­ratteristica del romanzo di Daniel Defoe è messa in forma dialogica con intenti educativi. Ai nostri tempi Robinson Crusoe è più conosciuto di nome che di fatto: e probabilmente hanno più lettori Lady Roxana e Moli Flanders che non le av­venture di questo antipoetico e immortale eroe.

Moltissime le traduzioni: dalla prima apparsa a Venezia nel 1745 e condotta sulla versione francese, a quelle di P. Fornari (Milano, 1924 3a ed.); di I. Alberti (Torino, 1921); di M. Paronelli (Milano, 1923; di B. Vettori (Firenze, 1930, 5a ediz.); di Anonimo (integrale, Torino, 1940)… fino alle più recenti.

Victor Hugo: Marion Delorme


Victor Hugo

Victor Hugo, Marion Delorme

Victor Hugo: Marion Delorme. Dramma in cinque atti, in versi, di Victor Hugo (1802-1885), rappresen­tato nel 1831. La prima stesura è del 1829, e il primitivo titolo Un duello sotto Richélieu (Un duel sous Richelieu); la rappresentazione ne fu interdetta dalla questura, che volle ravvisare nell’im­belle re Luigi XIII Re di Francia, Carlo X.

La Marion Delorme di Victor Hugo

Marion Delorme era una delle più belle, intelligenti e sfrenate cortigiane del secolo decimosettimo; alla sua figura l’Hugo si ispira, trasportandola sul piano della poesia romantica. Nel dramma, Marion è ritornata Maria, vive in solitudine, purificata dall’amore rispettoso e casto di Didier, un cavaliere misterioso sempre nero-vestito, triste e fiducioso nella purezza di Marion. Il suo amore cavalleresco lo porta a incrociare il ferro col marchese Gaspare di Saverny, che di Marion è stato amante e che, riconoscendola, ha l’indelicatezza di ricordarsene. Il duello è interrotto dall’arrivo delle guardie del Cardinale, che traggono in arresto Didier, mentre il marchese sfugge loro fingendosi morto. Riche­lieu, in odio ai moschettieri del re che del duello facevano quasi un mestiere, aveva comminato la pena di morte per chiunque fosse sorpreso le armi alla mano; il destino di Didier è segnato. Marion l’aiuta a fuggire, e i due si uniscono a una com­pagnia di artisti girovaghi. Laffemas, spia del Cardinale, riconosce Marion, e da lei facilmente risale a Didier e al marchese di Saverny, che stava tranquillamente assistendo ai propri funerali. Ogni supplica al re è vana, il buffone Langely riesce a strappare la grazia, il Cardinale ottiene il contrordine; anche il sacrificio che Marion fa di se stessa al turpe Laffemas è inutile. Il patibolo è pronto, i due giovani devono morire. A pochi istanti dalla morte, Didier, che aveva maledetto Marion per il suo inganno, commosso dallo strazio della donna e dalla sua umile angoscia, le grida il suo perdono e il suo amore in una parola che la riabilita: «mia sposa ».

Il dramma e il personaggio di Richelieu

Tutto il dramma è domi­nato dalla figura di Richelieu; in una delle prime scene assistiamo persino a una disputa letteraria sui meriti del Cid di Corneille (rappresentato nel 1636, anno in cui si finge l’azione) che i moschet­tieri ammiravano soprattutto perché condannato dal Cardinale. Scritto sei mesi dopo il Cromiceli, il dramma è uno dei più compiuti esemplari’ del teatro romantico; non manca quasi nessuno dei motivi ritenuti indispensabili: passioni travolgenti, contrasto di sentimenti, eroe misterioso, travestimenti. Soprattutto vi è messa in scena una delle idee più care alla giovane scuola romantica, la rigenerazione e la riabilitazione della cortigiana attraverso un purissimo amore. Questo intenso clima di romanticismo permette a Victor Hugo, nel pieno della sua lotta innovatrice, di esprimere tutto il calore della sua poesia nell’entusiasmo di quello che appariva il messaggio di una nuova etica.
Marion Delorme ha ispirato diversi melodrammi: uno di Giovanni Bottesini (1821-1889), rappresentato nel 1862; un’altro di Carlo Pedrotti (1817- 1.893), eseguito a Trieste nel 1865; il terzo che è l’ultima opera di Amilcare Ponchielli (1834-1886), rappresentato a Milano nel 1885. Di quest’ultimo che è il più notevole va segnalato l’intermezzo funebre del quarto atto.

Leggende epiche di Joseph Bédier


leggende

Leggende epiche ed epopee di Joseph Bédier

Leggende epiche di Joseph Bédier. Opera critica di Joseph Bédier (1864-1938), pubblicata in quattro volumi dal 1908 al 1913. E’ una discussa affermazione della filologia moderna sulla questione della formazione delle canzoni di gesta abbandonando quel che costituiva il valore puramente mitico dell’epopea e le teorie astratte che ne derivavano, per procedere con più precisa comprensione storica e con mezzi più razionali.

I promotori delle leggende

La teoria seguita da molti romanisti era nata agli inizi del XIX secolo e ne erano stati promotori i fratelli Grimm in Germania e il Fauriel in Francia; essa stabiliva che la canzone di gesta era nata per germinazione spontanea, essendo l’epopea la. forma poetica meravigliosa che i popoli giovani danno alla, storia. Il Bédier consacrò le sue lezioni dal 1904 al 1911 alla canzone di gesta, cominciando dal ciclo di Guglielmo I d’Orange. Il risultato a cui giunse nelle sue ricerche, e che sviluppò nelle sue lezioni, può esser compendiato in cinque punti: non c’è traccia di nessun testo autentico e originale di quei canti epici che avrebbero dovuto nascere il giorno seguente una vittoria, e da cui sarebbero poi sgorgate le epopee dell’undecimo, dodicesimo e tredicesimo secolo; la parte storica delle principali canzoni di gesta non ha alcun riferimento coi fatti e coi personaggi reali, anzi sembra che gli autori non abbiano alcuna conoscenza dei poemi anteriori all’argomento che essi trattano.

Leggende locali e epopee

In ogni epopea sono strettissimi i rapporti con le leggende locali, e particolarmente con le chiese, le tombe, le feste, i pellegrinaggi; le canzoni di gesta son dunque nate in vicinanza ai santuari, dove i giullari, d’accordo coi monaci e con gli scrivani, volevano attirare e trattenere i pellegrini; infine, di queste canzoni si possiedono gli originali, o versioni molto somiglianti, che devono essere studiati come opere letterarie, secondo i procedimenti della critica letteraria, senza volervi rintracciare i resti di ipotetiche cantilene. Le ricerche del Bédier, comprendono il ciclo di Guglielmo I d’Orange nel primo volume; la Leggenda di Rossiglione, le canzoni di Oggeri il Danese e san Faraone di Meaux nel secondo; nel terzo la leggenda dell’infanzia di Carlo Magno, la storia di Carlo Martello, il Pellegrinaggio di Santiago de Compostela e la Canzone di Orlando; nel quarto Riccardo di Normandia e altre leggende, e la conclusione dell’opera.

 

Norman Douglas, Vecchia Calabria: un inglese innamorato del Sud Italia


Calabria

Norman Douglas, Vecchia Calabria

Norman Douglas, Vecchia Calabria: un inglese innamorato del Sud Italia. Tra le opere di Norman Douglas, Vecchia Calabria è forse quella che meglio riassume la singolare e complessa personalità di questo inglese anticonformista e perdutamente affezionato al Sud, il quale visse per molti anni lontano dalla sua patria e trascorse lunghi periodi nel meridione d’Italia. In quest’opera, lo scienziato imparziale e il mite amante della natura, il critico severo, l’affettuoso spettatore della vita e l’ironico osservatore delle sue follie, assume un tono più scherzoso e volutamente divertente, un tono più cordiale che, pur nella più spietata critica dei costumi e delle idee, rivela una profonda e serena comprensione umana. Come ha giustamente osservato il suo intimo amico professor Dawkins in un confronto fra questo libro e South IVind, altro capolavoro di Douglas, “in Vecchia Calabria è lo stesso uomo che descrive tutto ciò che ha trovato interessante, ma lo fa per il proprio piacere e per il piacere di coloro che hanno i suoi stessi gusti. Comunque sia, non c’è libro che offra maggiori garanzie di lunga vita di un ottimo libro di viaggi, e non mi risulta che la lingua inglese possegga un libro di viaggi migliore di Vecchia Calabria. . . Si può apprezzare appieno un libro di viaggi scritto da un compatriota soltanto allorché il viaggiatore ci fa sentire la simpatia che ha saputo ispi­rare nelle genti da lui visitate – e possiamo essere sicuri che Dou­glas fu amato quanto lo fu Samuel Butler in Sicilia e nelle Alpi italiane, e Edward Lear in tutti i paesi da lui visitati”.

Nathalie Sarraute e l’antiromanzo, Quaderni Milanesi, primavera 1962


Quaderni Milanesi

Quaderni Milanesi, primavera 1962

Nathalie Sarraute e l’antiromanzo – Da Quaderni Milanesi, primavera 1962 – Voglio dirvi subito quale premio e quale gioia costituisce per me, dopo tanti anni di solitudine e tanta incomprensione incontrata anche nel mio paese, constatare che da voi si nutre qualche interesse per i miei tentativi. E la gioia è accresciuta per me dal fatto che, sebbene non conosca l’italiano, l’Italia come per molti stranieri è un poco la mia patria, poiché il suo spirito, lo spirito dei suoi scrittori, m’è sempre parso molto vicino al mio per più d’un aspetto, m’ha molto attirato e stimolato. Mi ricordo che, quando le ho conosciute attraverso i Pitòeff, le prime opere di Pirandello sono state un grande avvenimento della mia giovinezza e hanno certamente impresso un marchio sulla mia formazione letteraria. Insomma, ci son certe cose che è persino imbarazzante dire tanto sono banali, ma le voglio dire lo stesso poiché sono vere: ho raramente conosciuto momenti di arricchimento e di pienezza come quelli che m’ha dato, a diverse riprese, l’Italia. Tant’è vero che quando il protagonista del mio Ritratto d’ignoto in cui più mi riconosco, vuol ritrovare gli attimi privilegiati della sua esistenza, quando s’accosta a quel che lui chiama i suoi tesori segreti, si sente nascere dentro certe pietre di questo paese e la sonorità d’un nome italiano.
Mi è stato chiesto di dire qualche parola sul nouveau roman e sui miei tentativi. Io non ho ancora granché da dire sulle tendenze generali del nouveau roman poiché è un movimento che raccoglie scrittori di interessi molto diversi, a volte persino diametralmente opposti (così Robbe-Grillet e io siamo presso a po­co il contrario uno dell’altro) ma, se qualcosa ci unisce, è un cer­to bisogno di rinnovare le forme romanzesche, un certo desiderio di conquistare una libertà d’espressione che la critica ufficiale e tradizionale ci ha a lungo negato, poiché essa continuava, e continua spesso ancora, a giudicare i romanzi secondo criteri che ci risultano ormai piuttosto desueti. Così, a esempio, il ruolo del carattere, del personaggio nel romanzo, l’im­portanza accordata all’aneddoto, che noi troviamo francamente esagerata. Si è molto parlato d’antiromanzo. Si è usata, per caratterizzare il nostro presunto movimento, questa definizione d’antiromanzo che Sartre aveva usato nella prefazione al mio Ritratto d’ignoto. E, a questo punto, confesso di non capire bene cosa significhi, perché mi pare che ogni romanzo che tenti di esprimere una realtà non espressa dai romanzi scritti prima e che si serva d’una sua tecnica appropriata, sia un anti­romanzo rispetto alle opere dei predecessori. Così, naturalmente nel più assoluto rispetto delle proporzioni, Don Chisciotte è stato un antiromanzo rispetto ai romanzi cavallereschi. A suo tempo si è rimproverato Proust di non aver scritto un romanzo. A suo tempo Ulysses di Joyce è stato sconfessato come romanzo. Eppure adesso sono iscritti nella storia letteraria come i romanzi più importanti della nostra epoca. Penso che, se i nostri libri, quelli che scriviamo ora, hanno una vitalità sufficiente per resistere un poco, i giovani romanzieri che scriveranno più tar­di, e per i quali le nostre opere saranno romanzi tradizionali, comporranno gli antiromanzi di oggi. (…)

Magia e rito magico di Joseph Maxwell, 1928


Magia e rito magico

Magia e rito magico

Magia e rito magico di Joseph Maxwell, 1928 – Esposizione sistematica dei risultati degli studi moderni su questo fenomeno, di Joseph Maxwell (1873-1938), pubblicata nel 1928 con il titolo originale “La magie”. Il rito magico viene definito: “l’espressione di una volontà forte, affermata in ogni particolare del rituale, tendente a soggiogare esseri soprannaturali o a dominare forze naturali, ordinariamente sottratte all’impero dell’uomo“. Fattore principale del suo sorgere tra i primitivi è stata la constatazione di sogni o allucinazioni veridici, che li à condotti a pensare che l’uomo à un’anima, che si può manifestare dopo morte ai viventi, o, in individui dotati di facoltà eccezionali, separarsi dal corpo per trasportarsi a distanza a visitare luoghi e persone: e qui è anche la sorgente comune della religione.

Magia evocatoria, teurgica e magia nera

L’autore studia le differenti forme della magia: “evocatoria”, lecita e teurgica, ovvero illecita; la magia nera, la negromanzia; la magia simbolica e la cerimoniale; la “naturale”, divinatoria, simpatica, analogica. Per ognuna delle forme evocatone sono studiati le norme, i riti, la tecnica, l’efficacia e i pericoli, le precauzioni, le purificazioni richieste, i “legami magici” con i quali l’evocatore incatena l’essere soprannaturale invocato. Questa magia sembra trovare una giustificazione nella concezione che tra le varie parti dell’universo, come aveva già visto Plotino, “esiste una tale armonia, che il minimo avvenimento si riflette su tutto il corpo intero; che il più leggero movimento dell’anima umana non può vibrare senza che le stelle stesse siano in posizione armonica con quel particolare movimento, e con quello soltanto“. La magia naturale si dirige verso gli astri e le influenze che ne emanano, verso i minerali (alchimia), i fenomeni atmosferici, il fuoco. Gli scongiuri per la pioggia, la prova del fuoco, l’invulnerabilità, il sortilegio sono poteri attestati in tutti i secoli e per tutti i popoli da innumerevoli testimonianze. Paracelso spiega l’efficacia dei malefici, filtri, ecc., con l’energia della volontà che agisce sullo spirito e sul corpo astrale del maleficio, e per riflesso su quello fisico.

Divinazione e cure psichiche

Una base psicologica hanno invece i procedimenti magici della divinazione e delle cure psichiche. Alla magia, come “forma attiva del sentimento religioso”, si riportano la “magia nera”, opposta alla religione dominante, come religione di popoli vinti; e d’altro lato la “mistica religiosa” e il suo veicolo, l’ascesi, con i doni spirituali e psichici che la accompagnano. Così pure la stregoneria, sorta dal conflitto con l’ordine pubblico e spesso col dogma; nonché la “filosofia ermetica“, alla quale l’alchimia ha servito da mantello più che da base. Tra le forme moderne sopravvissute della magia, sono quella evocatoria, sotto forma di riti clandestini; quelle della stregoneria, della divinazione; quella terapeutica e delle piccole chiese mistiche. Tre forme sono qui particolarmente studiate: la magia terapeutica moderna e il magnetismo animale; lo spiritismo, “ben inferiore alla magia e alla mistica per la sua inesperienza pratica e ignoranza psicologica” ; e la teosofia, “misticismo raffinato volto all’intelligenza più che al sentimento”. Nell’ultimo capitolo, “La magia di fronte alla scienza moderna”, si rivelano meglio il pensiero e le vedute personali dell’autore, per cui i processi magici hanno lo scopo di sostituire l’attività della super-coscienza a quella della coscienza personale: scopi continuati oggi dalle scienze psichiche.

Madrigali di Giovanni Pierluigi da Palestrina – storia della musica


Giovanni Pierluigi da Palestrinaa

Giovanni Pierluigi da Palestrina

Madrigali di Giovanni Pierluigi da Palestrinastoria della musica. Composizioni a più voci su testo volgare di contenuto profano e spirituale di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525 circa – 1594). Furono pubblicati nelle seguenti raccolte: Il primo libro de’ Madrigali a quattro voci (Roma, 1555, importante ristampa a Venezia, 1594”; Il -primo libro de’ Madrigali a cinque voci (Venezia, 1581); Il secondo libro de’ Madrigali a quattro voci (Venezia 1586); Delli Madrigali spirituali a cinque voci di Gio. Pietro Luigi Prenestino Maestro di Cappella di S. Pietro di Roma, Libro secondo (Roma, 1594). Altri madrigali da tre a sei voci apparvero sparsamente in varie raccolte dell’epoca, come la Ghirlanda, Li amorosi ardori, i Dolci affetti, i Libri delle Muse., che, aggiunti agli altri, formano un totale di circa 140 composizioni, senza contare alcuni che ci sono pervenuti con le parti incomplete. Tutti quanti si trovano trascritti in notazione moderna nella grande edizione di Lipsia delle opere del Palestrina curata da Franz Xavier Haberl. Nei libri a quattro voci i testi poetici sono tolti dal Petrarca e dalla scuola petrarchesca del Rinascimento, non escluse di quest’ultima certe manifestazioni frivole o quasi licenziose; lo stesso si dica dei madrigali sparsi in varie raccolte, ove si trovano musicate alcune tra le più celebri poesie del Petrarca, come “Chiare, fresche e dolci acque“. I due libri a cinque voci contengono invece testi poetici di carattere spirituale: inni religiosi, generalmente alla Vergine, in lingua volgare e in forma lirica. Il primo libro contiene gli otto madrigali sulla canzone del Petrarca Vergine bella e altri su versi ben più modesti sul tipo delle Laudi cinquecentesche. Nel secondo i testi poetici sono parafrasi delle Li­tanie della Vergine (sempre in lingua volgare) di autore ignoto. In quanto alla musica, alcuni madrigali palestriniani, pur nell’espressione di un contenuto profano e amoroso, sono di un’altezza spirituale rara in altri autori dell’epoca. S’intende tut­tavia che il loro carattere è diverso da quello delle composizioni sacre dello stesso autore: paragonando, per esempio, i madrigali a quattro voci con i mottetti pure a quattro, i primi appaiono dì una scrittura polifonica più semplice: in parte di essi domina la forma “nota contro nota”, cioè con sovrapposizione simultanea delle voci, formanti accordi; in altri troviamo invece abbondanza di procedimenti contrappuntistici, con inizio ed episodi a imitazione fugata come nei mottetti: in tal caso la distinzione formale tra i due generi si affievolisce; e in realtà essa non è poi così rigida come alcuni vorrebbero. La più bella prova sta nel fatto che più d’un madrigale del Palestrina poté trasformarsi, per mano dello stesso autore, in una composizione sacra: citeremo solo il caso del madrigale da poesia boccaccesca “Già fu chi m’ebbe cara”, su cui nacque una Messa parodia che, tra l’altro, à un “Sanctus” sublime. Accanto poi all’alta spiritualità è da ammirare, nei madrigali come in ogni altra composizione palestriniana, quella armonia di forme, quella morbidezza di linee e di tinte che sono caratteristiche della grande arte del Rinascimento. Tra gli esempi più belli, vanno ricordati i seguenti madrigali: a quattro voci: “Donna vostra mercede”, “Deh! or foss’io col vago della luna”, “Là vèr l’aurora”, “Alla riva del Tebro”, famoso quest’ultimo per una dissonanza non pre­parata, eccezionale in quei tempi, a cinque voci; “Se fra quest’erb’è fiore”, “Soave fia il morir”, “Vestiva i colli”, uno dei madrigali più celebri nel Cinquecento, trascritto per liuto da Vincenzo Galilei nel Fronimo e persino messo in caricatura da Adriano Banchieri nella Pazzia senile. I madrigali spirituali vengono generalmente giudicati di valore superiore, in quanto più vicini, per forma e ispirazione, alle composizioni sacre: soprattutto nel secondo libro il genio di Palestrina si palesa nel suo pieno splendore; è questo uno degli ultimi grandi esempi dello stile polifonico del Rinascimento, prima che si affermasse la monodia. I pezzi ivi contenuti anno carattere di pia e devota effusione, ma insieme uno stile immaginoso e libero, una grande ricchezza e varietà melodica e armonica. Ricorderemo “Se amarissimo fiele”, “Vincitrice de l’empia idra infernale”. “Tu di fortezza torre”, e l’ultimo “E tu Signor, tu la tua grazia infondi”, che sembra chiudere l’attività artistica di Giovanni Pierluigi da Palestrina in una serena preghiera, in una visione di conforto a tratti temperata da accenti dolorosi.

Henri Bergson, Materia e memoria


Henri Bergson

Henri Bergson, Materia e memoria

Henri Bergson, Materia e memoria. Titolo originale Matière et mémoire: essai sur la relation du corps à l’esprit. Opera filosofica di Henri Bergson (1859-1941), pubblicata nel 1896. Bergson intende mostrare qual sia il rapporto fra i due opposti termini dello spirito e della materia, dalla cui coordinazione nasce l’esperienza. La difficoltà di risolvere il dualismo e l’opposizione di questi due termini sta nella concezione, comune al materialismo e all’idealismo, che fa del morale il duplicato del fisico: in tal caso resta inesplicabile perché e come avvenga questa ripetizione cosciente dei fenomeni materiali. Quanto al dualismo volgare che vede nei movimenti cerebrali la causa della rappresentazione cosciente, esso si riconduce, in ultima analisi, all’una o all’altra delle teorie sopraindicate; altrimenti finirà per vedere nel corpo e nello spirito due tradizioni, parallele e senza reciproca influenza, di uno stesso oggetto e ucciderà così la libertà. Queste tre ipotesi anno un fondo comune: esse considerano le operazioni dello spirito, percezione e memoria, come operazioni della conoscenza pura, trascurando il loro rapporto con l’azione. Per Henri Bergson invece la percezione risiede piuttosto nelle cose che nell’individuo; i cui centri percettivi non sono altro che l’abbozzo dell’azione con cui si può reagire allo stimolo esterno. La percezione è dunque una selezione, con cui si elimina tutto quello che non offrirebbe presa sul piano dell’azio­ne. Il rapporto che intercorre tra il fenomeno e la realtà non è dunque quello dell’apparenza con la realtà, bensì quello della parte con il tutto. L’errore fondamentale del realismo consiste nel considerare lo spazio omogeneo come uno forma che precede le cose e in cui queste sono collocate. Invece esso è il prodotto di una funzione del nostro cervello, che spazializza le percezioni per poterle adattare ai bisogni dell’azione. Il corpo, essendo esteso, può agire su se stesso non meno che sugli altri corpi (e per questo ci si presenta a un tempo come sensazione e come immagine): perciò alla percezione pura si mescolano due elementi soggettivi; l’affezione (in quanto il corpo percepisce se stesso) e la memoria. La memoria è a torto considerata come il prodotto dell’accumulazione dei ricordi nella materia corticale, mentre il cervello è l’organismo che li convoglia all’azione, trascegliendoli dal flusso spirituale della memoria pura per materializzarli al contatto della percezione presente.

Tra ricordo e percezione esiste un’essenziale differenza di natura e non semplicemente di grado: in realtà la memoria consiste in un progresso dallo stato attuale con cui ci si pene nel passato allo stato d’azione in cui il ricordo si materializza in una percezione attuale, attingendo l’ultimo dei vari piani della coscienza, quello in cui si disegna il corpo. Il presente invero non è qualcosa di più intenso del passato, ma lo stato di azione del corpo: mentre il passato è ciò che non agisce più, ma che può agire inserendosi nel presente, ove il ricordo, attualizzandosi, ridiventa percezione. La percezione pura è un ideale: ogni percezione occupando una certa durata, partecipa della memoria: la percezione concreta risulta dunque da una sintesi del ricordo puro e della percezione pura che si esplica in ciò che Bergson chiama “ricordo immagine -. Si è così ridotto ai più stretti limiti il problema dell’unione delle anime e del corpo. L’opposizione di questi due principi che è nel dualismo, si risolve nella triplice opposizione dell’inesteso all’esteso, della qualità alla quantità e della libertà alla necessità. Si risolvono queste opposizioni in primo luogo sostituendo al concetto dell’estensione quello dell “estensivo” che, consolidandosi a mezzo di uno spazio astratto, dà luogo all’estensione della materia, e sottilizzandosi invece dà luogo alle sensazioni in estensive della coscienza; in secondo luogo riconoscendo al movimento un germe di coscienza, il che fa sì che si comprenda come tra i cambiamenti meno eterogenei (movimenti nello spazio) e i cambiamenti più eterogenei (stati di coscienza) intercorra non una differenza di natura ma semplicemente una differenza nel ritmo della durata, una differenza di tensione interiore; infine riconoscendo come la libertà scaturisca dalla necessità, che governa l’universo materiale, in seguito al progresso della materia vivente, il quale consiste in una differenziazione di funzioni che porta alla formazione e alla complicazione graduale di un sistema nervoso capace di indirizzare l’azione per vie diverse. In quest’opera, cui aggiungono pregio la vivezza e la limpidità dello stile, ha grande importanza soprattutto la geniale applicazione del pragmatismo, per la quale alla funzione cerebro-spinale è riconosciuto un valore pratico piuttosto che teoretico.

Vitruvio e la scenografia teatrale


Teatro Olimpico di Vicenza

Vincenzo Scamozzi, Disegno per un fianco delle strade del Teatro Olimpico di Vicenza. Firenze, Uffizi

Vitruvio e la scenografia teatrale. Assolutamente ignorata durante il Medioevo, il De Architectura di Vitruvio, dopo una prima edizione nel 1486, fu oggetto di numerose ristampe non solo in Italia ma anche in Francia ed in Germania, che le valsero una posizione indiscussa di testo-base cui si rivolgeranno puntualmente gli scenografi di quegli anni. Eppure, in questo celebre trattato, ben poche sono le note dedicate all’allestimento scenico. “Vi sono tre tipi di scene” – scrive Vitruvio (Cap. VI, 9) – le sce­ne tragiche, formate da colonne, frontoni, statue ed altri ornamenti reali; le scene comiche mostrano case private con finestre simili a quelle delle abitazioni ordinarie; le scene satiriche sono descritte con alberi, caverne, rocce, e altri oggetti agresti trattati con stile paesaggista.” Vaghi accenni, come ognuno vede, la cui intelligibilità è resa ancor più incerta ed improbabile dall’assenza di grafici. Gli studiosi che si sono accostati a quest’opera hanno dovuto compiere un lavoro di interpretazione piuttosto arduo che, oltre tutto, non poteva essere perseguito senza che il clima culturale del momento, incidendovi più o meno sensibilmente, ne falsasse il significato originale.
Ad una più approfondita conoscenza della scenografia rinascimentale, ben poco aggiungono le descrizioni dei diaristi. Una fonte preziosa è costituita, invece, dalle edizioni delle commedie di Terenzio che, con il loro pingue corredo di xilografie, sono una icastica testimo­nianza circa la filiazione della scena cinquecentesca dal­l’apparato scenico medievale, cui l’innesto della prospettiva, imponendo una unità geometrica, conferiva un significato del tutto inedito.
Sebbene le edizioni terenziane abbiano indotto ad identificare l’aspetto di questi allestimenti, compresi tra la fine del ’400 ed i primissimi anni del ’500, in un tipo di scena che, secondo l’Hermann, doveva rappresentare una strada medievale in profondità, e, secondo la Povoledo, una serie di case allineate su una fila “come nella scena medievale giustapposta alla france­se“, in effetti, le polemiche interpretative, basate su tali labili documenti, rimangono più che mai aperte. Pur ruotando intorno alla rappresentazione di ‘città’, intesa come prospettiva urbana, alcune varianti diversificarono la scena cinquecentesca a seconda del periodo di produzione.
Inizialmente, la profondità spaziale — secondo quanto attesta la lettera di Gaio Sulpicio da Veroli al cardi­nale Riario, nella quale si accenna, in termini di assoluta novità, alla ‘scena pictura’ — era resa attraverso una scena illusiva dipinta; un fondale inquadrato da due grossi ‘telari’ (quinte) di primo piano che potevano essere realizzati pittoricamente, come in Pelle­grino da Udine, o in rilievo, come in Gerolamo Genga. A Pellegrino da Udine ( S. Daniele del Friuli o Udine, 1476-Udine, 1547), allievo del Giambellino e — secondo la testimonianza del Vasari — attivo nel fer­rarese tra il 1504 ed il 1514, si deve l’allestimento di uno spettacolo che segna una data fondamentale nella storia della scenografia. Alla Cassaria dell’Ariosto (1508), messa in scena per la Corte estense in un teatrino provvisorio accomodato nella Sala Grande, è legata, infatti, la prima scena prospettica dipinta storicamente accertata. Di tale scena “ch’è una contracta et prospettiva di una terra (città) cum case, chiesie, campanili et zardini, che la persona non si può satiare a guardarla per le diverse cose che ge sono, tute de inzegno et bene intese” non resta che questa breve descrizione del Prosperi, il quale a conclusione esprime la certezza che, detta scenografia teatrale, invece di essere distrutta dopo la rappresentazione secondo l’uso corrente, sarebbe stata messa da parte per altra occasione. L’assenza di documenti iconografici non consente illazioni di carattere stilistico o tecnico che offrano un margine sufficiente di attendibilità. È lecito però sottolineare la circostanza per cui tale tipo di scena, una sorta di contaminatici tra la scena multipla medievale e l’apparato festivo, sia stata tenuta a battesimo pro­prio a Ferrara, dove, più che altrove, negli ultimi anni si era sviluppato questo genere di addobbo. Comun­que, non è possibile escludere con assoluta certezza che la scena prospettica dipinta su fondale fosse stata anticipata da altri artisti, proficuamente militanti anche nel settore teatrale, quali Piero della Francesca e Gerola­mo Genga.

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Libri da salvare: Materiali di ricerca dall’archivio di Spazio Tadini di via Jommelli 24 a Milano – Scenografia dal Rinascimento all’età romantica, 1966, Collana Elite Fratelli Fabbri Editori.

Scenografia italiana: il Rinascimento e la prospettiva


Prospettiva

Baldassarre Peruzzi, Prospettiva per Scena Comica. Disegno. Firenze, Uffizi

Scenografia italiana: il Rinascimento e la prospettiva Libri da salvare: Materiali di studio dalla biblioteca della Casa Museo Spazio Tadini di Milano – Scenografia dal Rinascimento all’età romantica, 1966, Collana Elite Fratelli Fabbri Editori. Prima di esaminare le fasi salienti del suo ciclo storico, è opportuno precisare cosa si intende per scenografia, considerando che — come ogni vocabolo destinato a designare convenzionalmente un’attività dello spirito protratta nel tempo — tale termine è soggetto ad un incessante processo evolutivo. Ciò, sia per il continuo divenire dell’opera creativa alla quale è rivolto sia per l’atteggiamento, anch’esso mutevole, che la critica ha assunto nei suoi riguardi nel corso dei secoli. Durante il Rinascimento, seguendo i precetti vitruviani — allora, come ogni altro modello classico, considerato inoppugnabile esempio — il termine Scenografia, inteso in senso letterale, indicava la rappresentazione prospettica di una immagine tridimensionale sul piano, o, se più piace, “l’applicazione delle leggi ottiche alle arti figurative e costruttive nel loro complesso“. Per estensione, il termine scenografia venne adoperato anche nel caso dell’apparato scenico deformato secondo i dettami della nuova scienza che consisteva appunto nella raffigurazione prospettica di un ambiente generico.

Scenografia

Ben diverso il significato odierno. Questa parola, nel­l’accezione moderna, serve a definire l’ambiente in cui avviene l’azione scenica, individuandone e precisandone le peculiarità storico-geografiche mediante l’uso di elementi eterogenei, dipinti o plastici, che configurano, realisticamente, idealmente o simbolicamente, lo sfondo della vicenda, nonché il pathos drammatico legato all’azione stessa.
Il sensibile divario di queste espressioni è punteggiato da numerose tappe, corrispondenti ad altrettante va­rianti concettuali del termine: ricerca dello spazio prospettico, il teatro à machines, la scena a fuoco centrale fisso, la scena a fuochi multipli, la visione d’angolo, l’ambientazione storica, la definizione del clima dell’o­pera. Un lento e complesso processo evolutivo che, lungo l’arco di circa quattro secoli, condurrà l’elemento scenico dall’iniziale presenza vagamente decorativa ad una ben più proficua funzione espressiva.
Come ogni rivoluzione dello spirito, la scenografia rinascimentale non scaturisce ex abrupto dall’opera di un singolo, ma dalla confluenza, più o meno casuale, di molteplici correnti preesistenti. Queste componenti che, operando sull’allestimento della Sacra Rappresentazione, dovevano configurare un capitolo tra i più interessanti ed originali nella storia del teatro italiano, possono essere ricondotte all’invenzione della prospettiva lineare ed alla riscoperta del teatro classico, rivissuto in maniera affatto nuova ed autonoma.

Shakespeare senza fine di Wolfgang Goethe, saggio, 1815 – 1816


Shakespeare

Shakespeare senza fine di Wolfgang Goethe

Shakespeare senza fine di Wolfgang Goethe, saggio, 1815 – 1816. Titolo originale Shakespeare und kein End. Saggio in due parti di Wolfgang Goethe (1749-1832). La prima parte Shake­speare poeta e Shakespeare nei confronti degli antichi e dei moderni, redatta nel 1813, fu pubblicata nel 1815 sulla Gazzetta del mattino per le classi colte, la seconda, Shakespeare quale poeta teatrale, redatta nel 1816, fu pubblicata nel 1826 su Arte e Antichità. Goethe vede nell’arte di Shakespeare una specie di magia evocatrice della vita. Secondo il suo concetto le opere di Shakespeare non sono per gli occhi di carne, perciò le giudica più adatte alla lettura che alla rappresentazione. Esse ci offrono l’espe­rienza della verità nella vita e non sappiamo come. L’arte di Shakespeare rappresenta l’animo umano oltre ogni anacronismo e costume esteriore, e questo che sarebbe per gli altri manche­volezza diviene in lui affermazione di poesia universale. Accostando Shakespeare ai poeti moderni e agli antichi è evidente che egli appartiene al presente, ma non ai moderni nel senso romantico, mentre si stacca dagli antichi per la concezione fondamentalmente diversa dell’uomo. Il personaggio della tragedia shakespeariana non è sottoposto a un Fato, a un’assoluta necessità, ma a una necessità morale, mitigata dalla volon­tà umana. Il Goethe, che nella Missione teatrale di Guglielmo Meister (Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister) aveva proclamato Amleto  prototipo dell’opera teatrale, nega ora a Sha­kespeare le qualità di drammaturgo riconoscibili solo in certi momenti eccezionali, gioielli disse­minati qua e là fra il molto non teatrale, e conviene con lo Schròder nella necessità di riadattare i drammi shakespeariani, per le scene tedesche, togliendo quelle parti che allentano l’interesse del dramma. In tutto questo saggio si sente aleggiare lo spirito di Schiller.

Racconti provenzali, di Joseph Roumanille


Racconti provenzali

Racconti provenzali, di Joseph Roumanille

Racconti provenzali, di Joseph Roumanille. Titolo originale: Conte prouvençau. Pro­se in provenzale di Joseph Roumanille (1818-1891), uno dei fondatori dell’associazione dei nuovi poeti provenzali, i Felibri, sorta nel 1854. Apparsi dal 1855 in poi nell’Almanacco Provenzale i Racconti provenzali furono raccolti in volume nel 1883, rivelando alla Francia uno dei suoi più schietti e originali narratori, e dando agli scrittori provenzali un nuovo mezzo per rendere tutto quello che c’è di particolare e di profondo nell’anima ardente della razza e che solo può esprimersi con la lingua degli avi. Il Roumanille possiede naturalmente il genio di codesta lingua fresca, viva, incisiva, piena di scorci meravigliosi. Quasi sempre in un intreccio semplicissimo (una pesca andata a vuoto, una caparra rubata, una gioconda beffa, un tiro birbone a dei poveri diavoli) il Roumanille riesce a darci narrazioni nuove, vivacissime e spigliate, anche quando gli argomenti sono tratti dalla tradizione orale o da vecchi libri dimenticati. Bellissimi, fra tanti racconti, il Romito di San Giacomo – L’Ermitan de Sant-Jaque – la burla che un astuto romito fa a un suo malaccorto be­nefattore carpendogli un grosso e grasso tacchino, già ripieno e pronto per la rituale cena natalizia ; Abate Turaccioletto – L’Abat Tabouissoun – la storia, tra mesta e giocosa, di un buon prete che ha sempre le labbra aride e che ha bisogno di inumidirle con un sorso di buon vino, specialmente quando predica sul pulpito, donde una sua umiliante avventura ; Quand’ero bambino – Quand ère enfant – un gustosissimo episodio di vita infantile, reso con incomparabile verità e grazia birichina ; e La Salvia – La Sàuvi – una pia leggenda popolare, tutta pervasa di devota e sincera ingenuità e di commozione profonda. Alcuni di questi piccoli capolavori furono tradotti in francese da Alphonse Daudet, dal Pontmartin, dal Blavet e da altri.

Solaria: rivista letteraria mensile pubblicata a Firenze dal 1926 al 1936


Solaria

Solaria rivista letteraria

Solaria: rivista letteraria mensile pubblicata a Firenze dal 1926 al 1936. (L’ultimo numero porta però la data del settembre-dicembre 1934). La diressero fino al 1929 Alberto Carocci; nel 1929- 1930 lo stesso e Giansiro Ferrata; nel 1931-32 Carocci ancora e Alessandro Bonsanti; negli ultimi anni, Carocci tornò a dirigerla da solo. Na­ta in formato piccolissimo e con una certa dolcezza idillica, svolgendo soprattutto una prosa evocativa che dominava, in quel tempo, la letteratura d’avanguardia, si distinse presto per il vivace equilibrio delle sue pagine e per la rivelazione di scrittori importanti, per la fedeltà ad altri degni di consenso. Narratori quali Comisso, Loria e Carlo Emilio Gadda, poeti come Saba e Montale vi accennarono con forza a un ritrovo comune. Poi si moltiplicarono i col- laboratori e crebbe il formato, motivi d’ideologia e di polemica si aggiunsero naturalmente agli spunti occasionali di critica. Dalla miglior letteratura europea del tempo venivano suggestioni che i più giovani solariani raccolsero con non sgradevole ingenuità, intrecciandole al nuovo senso della tradizione lasciato dalla Ronda e tra gli sviluppi e problemi della spiritualità nazionale, in un periodo complesso e difficile Tre successivi omaggi a Umberto Saba, Italo Svevo, Federigo Tozzi, precisarono meglio le tendenze della rivista che, intorno al 1929-30, si appoggiava ormai a un nutrito gruppo letterario, rinnovando il nome del Caffè delle Giubbe Rosse, riaffermando certa posizione privilegiata di Firenze entro la coltura italiana. Solaria segnalò per prima, oltre ad alcuni tra gli scrittori accennati, Bonsanti, Quasimodo, Penna, Vitto­rini, la Manzini, Quarantotti Gambini, Pavese, Contini, Ferrata, Morovich, Guarnieri, Morra; altri come Ungaretti, Solmi, Giotti, Stuparich, Raimondi, Burzio, Leo Ferrerò, Debenedetti, Tecchi, Franchi, Corrado e Alessandro Pavolini, Zavattini, Piero Gadda, Timpanaro. Grande vi ebbero un proprio posto frequente e naturale. E dal 1928 al 1936, le Edizioni di Solaria pubblicarono non poche tra le opere letterarie che, di quel tempo, si raccomandano ancora. Non poteva mancare qualche battaglia intorno a un’at­tività ricca di motivi originali e arditi, portata qualche volta a eccessi di zelo. Si parlò molto in quel tempo di torri d’avorio, di clan, d’assenza dai problemi umani e politici del momento, si accusarono i solariani d’esterofilie e calligrafie e fin di torbide propensioni. Ma, a poco a poco, si fece chiaro che li interessava il libero svolgimento d’un lavoro spirituale destinato a rinnovare il tono della letteratura italiana contemporanea. La narrativa poetica in cui credette Soiaria ottenne risultati non estranei alla sua attività: fu dei narratori solariani l’insistenza sui valori della memoria, il rilievo e la discrezione della fantasia, mentre si formò particolarmente in Solaria un nuovo equilibrio del linguaggio tra elementi di classicità rondesca e altri, più sciolti, nel quale si ritrova oggi quasi il tono dominante d’una letteratura giovanile aperta ad avventure felici.

Gabriele D’Annunzio: Sogno d’un tramonto d’autunno, 1889


Gabriele D'Annunzio

Gabriele D’Annunzio, Sogno d’un tramonto d’autunno

Sogno d’un tramonto d’autunno di Gabriele D’Annunzio, 1889. Atto unico in prosa di D’Annunzio (1863- 1938) definito poema tragico, Pubblicato nel 1899 e rappresentato nel 1905. Come il Sogno d’un mattino di primavera, di cui nasce gemello, si propone soltanto di suscitare un vago accordo di immagini intorno a un paesaggio: il quale è ancora di voluttà, ma in tono alto anziché basso, dionisiaco anziché languido: quasi sublimazione enfatica della Femmina lussuriosa e invincibile quale apparve nel Trionfo della Morte. Qui è Pantea, la grande Meretrice, che naviga per il Brenta su una nave d’oro verso Venezia, seguita da giovani amanti folli di lei: dei quali uno è disperatamente amato da una donna non più giovane, la dogaressa Gradeniga, che già per lui uccise il marito, e ora a forza di sortilegi vuole uccidere la rivale per sottrarle l’amante. I sortilegi creano il fatto tragico, ché altri giovani amanti salgono il Brenta per rapire la Meretrice, e una strage si accende intorno a lei, finché la sua nave e la sua gente rovinano in fiamme. Come sempre dove immaginazione lussuriosa del D’Annunzio si dispiega in tono alto, il breve atto è animato più da convulsione che da vera forza di linguaggio poetico: e tanto meno c’è rappresentazione, in quanto l’azione si svolge tutta fuori di scena* raccontata dalle messaggere alla dogaressa. Perciò l’opera va messa fra le minori del D’Annunzio.

L’abbondanza, la veemenza della sua vena fa pensare a volte (com’è stato detto) a un poeta orientale, gettato nel mezzo del mondo europeo moderno. (B. Croce).

Nessuna creatura di D’Annunzio trascende il sui creatore; nessuna proietta la sua ombra oltre i torniti del finito. Chiuse da un’inesorabile contorno, esse portano sulla bocca, come le figure allegoriche della pittura arcaica, il loro significato. Il lettore non è mai chiamato a quel lavoro di collaborazione, che estende sino all’infinito il valore di un’opera d’arte. È impossibile capire un dramma o un romanzo dannunziano diversamente da come il D’An­nunzio l’ha capito scrivendolo. (G. A. Borgese).

Savonarola: Poema tedesco di Nikolaus Le­nau


Savonarola

Nikolaus Lenau, autore del Poema tedesco Savonarola

Savonarola: Poema tedesco di Nikolaus Le­nau (Niembsch von Strehlenau (1802-1850), pubblicato nel 1837. Il Lenau che, incoraggiato dall’amico Martensen e da Sophie von Lówenthal, s’era avviato, dopo una crisi religiosa, verso il Cristianesimo, trasse, dallo studio dei Padri della Chiesa e soprattutto dei mistici, l’idea di dedicare una trilogia poetica alla’libertà religiosa, purificatrice e rivivificatrice del mondo. Il triplice poema doveva comprendere un Huss, un Savona­rola e un Hutten, ma soltanto il Savonarola venne condotto a termine. Il Lenau si servì dell’opera dell’amico Rudelbach sul Savonarola, opera alla quale strettamente si attiene. Il poema, diviso in 25 quadri in quartine a rima alternata, dipinge la vita del Savonarola dal giorno che sentì nascere in sé la sua grande vocazione fino alla morte. Il quale è rappresentato come un nobile e austero temperamento incrollabile nella sua fede, incompreso dal mondo pieno di intrighi le opache menzogne che lo circonda. Gli episodi della Corte medicea, come la morte di Lorenzo il Magnifico, e i canti che riguardano la vita dei Borgia, storicamente falsati, servono più che altro a dar maggior risalto alla figura del frate. Pure da sfondo serve il personaggio di fra’ Domenico che gli è compagno nell’anno di noviziato e lo segue, ombra fedele e paziente, fin sul rogo. Più drammatica la figura dell’ebreo Tubai, che, vittima della persecuzione nei teneri figli, va bestemmiando Cristo e la Chiesa finché ritrova il Messia nel volto pallido del martire che s’avvia al supplizio, delicata, al principio e alla fine del dramma, la figura della madre di Savonarola, unico personaggio femminile che vi compare. Superate le difficoltà offerte dalle inevitabili discussioni teologiche, come le prediche di Savonarola e dell’avversario Mariano, Nikolaus Le­nau si rivela profondo conoscitore della Bib­bia, mentre deriva il tono contemplativo e il simbolismo dall’Apocalisse (v.). Il poema che è pervaso di una forte religiosità, religiosità che, per il Lenau, non sale alle regioni della trascendenza, suscitò al suo apparire vive discussioni: avversato dai cattolici per il tono fortemente anticlericale e riformatore, fu accusato di troppo misticismo dai liberi pensatori ancora dominati, come ebbe a dire il Lenau stesso, dallo Spinoza e da Goethe. La natura eminentemente lirica di Lenau fallisce di fronte alle difficoltà della composizione epica di grande formato. Solo i passi soggettivamente sentiti, dove il poeta si prostra col suo eroe dinanzi alla Croce, anno valore durevole nell’opera.

Scalate nelle Alpi e il Cervino – i racconti di montagna di Edward Whymper


Edward Whymper

Edward Whymper, ritratto da George Lance Calkin

Scalate nelle Alpi e il Cervino – i racconti di montagna di Edward Whymper. Titolo originale: Scrambles among thè Alps. Racconti di montagna dell’inglese Edward Whymper (alpinista dell’epoca Vittoriana: 1840-1911), pubblicati nel 1871. Il nome di Whymper è indissolubilmente legato a quello del monte Cervino; e infatti questo libro, pur narrando moltissime altre imprese, incomincia e finisce sulle rupi del Cervino, che fu la vera grande aspirazione dell’autore. Il suo primo viaggio sulle Alpi (Ober- land, Alpi Svizzere, la Valpelline, la vai d’Aosta) decise della sua passione per le grandi ascensioni. Le sue scalate ebbero inizio con un tentativo di salita al Cervino dalla cresta italiana (Sud-Ovest); in questa occasione egli incontrò per la prima volta Carrel, il suo futuro rivale, di cui subito comprese l’animo fiero e sdegnoso, ostile a quanti avessero osato salire senza di lui il suo Cervino. Nel 1867, Whymper si trovava al Breuil – Cervinia – quando seppe che il Carrel aveva deciso di partire con G. Giordano del Club Alpino Italiano, fondato pochi giorni prima, per scalare il Cervino. Sicuro che gli Italiani avrebbero vinto, e deluso nella sua più viva aspirazione, tornò allora a Zermatt, dove però lo attendeva una sorpresa: alcuni alpinisti inglesi con guide si stavano preparando per la stessa impresa. Postosi a capo della comitiva, Whymper partì per bivaccare alla base, e il giorno dopo giungeva alla cima tanto desiderata. Ma, durante la discesa, uno della comitiva mise un piede in fallo e un istante dopo quattro alpinisti, essendosi strappata la corda, precipitavano di rupe in rupe sul ghiacciaio, mille metri più in basso. Il Cervino era stato vinto, ma aveva voluto quattro vittime. Questo libro di Whymper segna un importante punto di arrivo e di partenza, essendo il primo in cui si tratti d’imprese compiute per pura passione alpinistica, e non, come prima, per motivi scientifici.

Ligeia di Edgar Allan Poe: racconto del 1838 dello scrittore americano


Francesco Tadini

Francesco Tadini, Milano

Ligeia di Edgar Allan Poe: racconto del 1838 dello scrittore americano. Eroina dell’omonimo racconto (1838) dello scrittore americano Edgar Allan Poe (1809-1849), ristampato nei Racconti del grottesco e dell’arabesco (anche Racconti straordinari). Il narratore anonimo la presenta come sua moglie, ma l’abbraccio in cui ella lo stringe è quello di una madre cosmica. Alta, slanciata, senza suono, ella si muove come un’ombra augusta attraverso i corridoi di un palazzo gotico in una “città sul Peno nebbiosa e in decadenza”; con la sola « avvincente e ammaliante eloquenza della sua bassa voce musicale » e col tocco della « mano di marmo » ella rende noto il suo ingresso nello studio dove, come una madre che insegni a camminare a un infante, conduce il marito per « il caotico mondo dell’indagine metafisica » e « i dilettosi paesaggi… di una sapienza troppo divinamente preziosa per non essere proibita ». Perché smisurata è la sua cultura; ella à attraversato « tutte le vaste zone della scienza morale, fìsica e matematica »; senza di lei egli è « un bambino brancolante nella notte »; la presenza di lei vive nel suo spirito « come in un tabernacolo ». Le origini di Ligeia si perdono in un passato remoto e misterioso; la sua « singolare e pur placida » bellezza è la bellezza degli « esseri staccati dalla terra o sopra di essa ». Lunghi e folti capelli neri, sopracciglia nere e nere ciglia fanno contrasto con una pelle « che rivaleggia con l’avorio più puro » e lineamenti così « fantasticamente divini » nella loro esotica armonia da suggerire una « spiritualità » ebraica, greca e orientale insieme. Le sue splendenti « luci », « più grandi dei più grandi occhi di gazzella della valle del Nourjahad », sono comperate, nel loro potere di evocare oscuri echi dai recessi dell’anima di suo marito, con ruscelli di acqua scorrente, con una certa « stella di sesta grandezza, doppia e cangiante, che si trova vicino alla grande stella della Lyra », con suoni di strumenti a corda, e con la citazione che serve di epigrafe al racconto : « L’uomo non si sottomette compieta-mente agli angeli né alla morte, se non attraverso la debolezza della sua volontà fragile ». Per Edgar Allan Poe la volontà di Ligeia è «gigantesca»: esprimendosi mentre ella è in vita in una fiera ma dominata intensità di parola, comportamento, sentimento e pensiero, essa sopravvive alla sua morte fisica, e, mesi dopo, la riporta alla vita fisica nella veste di colei che le succede. Essendo più o meno che una « figura « -forse immagine in un sogno – Ligeia incarna una fantasia di perfezione soprannaturale, e, come ideale visionario, trionfa sul Verme Conquistatore che divora la carne dei Mortali. Ma dopo aver eluso angeli e morte, ella si è lasciata collocare come campione ideale dell’onnisciente e onnipotente « Immagine della Madre » nella sezione edipica della collezione di cera di uno psicanalista. Un poeta e traduttore francese, l’esercizio del cui genio non fu ostacolato dalla straordinaria familiarità con lo stile americano, definì la rinomanza europea di Ligeia scambiando l’opera a cui ella dà il nome per un « petit poème en prose ». In America, tuttavia, è diffìcile distinguere quello che è valido nella figura di questa eroina (e di molte altre eroine di Poe) da un tessuto verbale la cui floscia grossolanità evoca dagli oscuri recessi dell’anima del lettore le armonie esotiche di profumi a buon mercato, fiori appassiti e frutta mézze.

Il medico di campagna Balzac, romanzo del 1833


Balzac

Il medico di campagna, di Balzac

Il medico di campagnaBalzac, titolo originale Le médicin de campagne. Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1833, accolto poi nella Commedia umana in Scene della vita di campagna. Ne è protagonista il dottor Benassis, il quale, dopo una vita dissipata e due amori sventurati, si ritira nei dintorni di Grenoble e diventa lo spirito benefico di un povero villaggio, che per opera sua e per la saggezza delle sue provvidenze sociali raggiunge grande prosperità.
È il libro di Balzac, in cui l’elemento romanzesco ha la minor parte, e che considera soprattutto, con serieta e buon senso, i problemi dell’amministrazione e del lavoro. Un notevole episodio è quello di una veglia di contadini, in cui un reduce delle campagne imperiali narra l’epopea napoleonica, nelle forme di una visione popolare e leggendaria.

Come in altre opere in cui tentò una conclusione pacificatrice, il pessimista Balzac vede, anche qui, nella beneficenza sociale una forma, e forse l’unica, di superamento morale in una società in cui sembravano dover necessariamente trionfare i valori inferiori. Ma rimane, anche questo, una bontà, in fondo, esteriore, che cerca contrapporre gesto a gesto piuttosto che spirito a spirito: il dottor Benassis fa del bene, ma non porta un nuovo messaggio di bontà, rivelatore di uno schietto e immediato atteggiamento dello spirito: quel messaggio che Balzac oscuramente e vanamente attendeva in tutta la sua opera.

Margherita d’Angoulême regina di Navarra e l’Heptaméron, o Eptamerone


Margherita d'Angoulême

Margherita d’Angoulême, ritratto di Jean Clouet, 1527

Margherita d’Angoulême regina di Navarra e l’Heptaméron (o Eptamerone). La duchessa d’Alençon (Normandia), poi regina di Navarra, è passata alla storia con epiteti poetici che la esaltano: fu chiamata la margherita delle principesse e proclamata la perla del Valois. La sua nascita è avvolta nel velo di una allegoria mitologica. Si racconta che venne al mondo “degna” d’essere battezzata Margherita per aver, sua madre – quando la portava in seno – inghiottita, nascosta in un’ostrica, una perla fatta della stessa divina rugiada… per cui fu creata come la più bella delle Dee.

La primogenita di Carlo d’Orléans, conte d’Angoulême e di Luisa di Savoia, condivise con Francesco, il fratello minore di lei di due anni, destinato a regnare, la serenità dell’infanzia e, sotto l’occhio amorevole e sagace della madre, vedova diciannovenne, gli studi dell’adolescenza, indi l’intera vita, basata su una rara saldezza di affetti.

Margherita d’Angoulême ebbe precettori coltissimi, che le insegnarono le lettere francesi e latine, la lingua italiana e la spagnola. Le parlarono di filosofia e le diedero rudimenti delle più varie scienze arrivando a insegnarle anche un po’ di ebraico.

Ancora giovanissima piacque a Carlo d’Austria, conte di Fiandra – il futuro Carlo V – che, una volta che la vide alla corte di Luigi XII la chiese – senza ottenerla – in sposa. Margherita fu assegnata nel 1509, da re di Francia in moglie al principe Carlo d’Alençon, con il quale convisse senza amore, restando nei primi anni lontana dalla vita pubblica in Alençon, ma partecipando alla vita di corte dopo l’avvento al trono di Francesco I, e alle vicende della Francia – specialmente nel 1525: anno terribile che cambiò il corso della sua esistenza. La “fatale” Pavia (la battaglia di Pavia viene combattuta il 24 febbraio 1525 e i francesi perdono circa 10.000 uomini) porta una catena inesauribile di guai e scava un solco nell’animo di Margherita d’Angoulême che vede il re fratello vinto e prigioniero, il proprio consorte, reduce e senza gloria, tornare a Lione con pochi fuggiaschi per morire, poi, tra le sue braccia ad aprile…

Margherita divenne poetessa e autrice di novelle. L’arte fu lo specchio della sua vita e fu capace di ritrarre i costumi e le caratteristiche salienti della società di corte del suo tempo.  L’Heptaméron, raccolta di novelle edita postuma ed anonima per la prima volta nel 1558 da Pierre Boaistuau con il titolo di Histoire des amanz fortunez, è l’opera più rappresentativa di Margherita regina di Navarra: quella che le è valsa la fama di scrittrice. Eptamerone raccoglie l’eco delle conversazioni nel mondo in cui regnava Francesco I, il re cavaliere. Il novelliere di Margherita di Navarra è il Cortegiano e, al contempo, il Decamerone della letteratura francese del cinquecento. Entrambi questi libri italiani, d’altra parte, erano famosissimi in Francia.

Nel prologo dell’Heptaméron è dichiarata la genesi dell’opera. L’autrice fa il suo disegno vagheggiato da altre persone della famiglia reale e da alcuni cortigiani di mettere insieme una raccolta di novelle sul tipo di quelle del Decamerone di Boccaccio. Margherita, però, dichiara subito che “difference de Boccace: c’est de n’escripre nulle nouvelle, qui ne soit veritable histoire“.

Margherita di Navarra lavorò a quest’opera dal 1540 in poi, ma, ammalatasi nel 1547  e morendo nel 1549 non riusci a portarla a termine.

Inizio del prologo dell’Heptaméron di Margherita d’Angoulême:

Il primo giorno di settembre, quando i bagni dei monti Pirenei cominciano a produrre i loro effetti salutari, si trovarono a quelli di Cauderès molte persone si di Francia che di Spagna, alcune venute per bervi l’acqua, altre per i bagni termali, altre ancora per i fanghi; tutte queste cure sono sì miracolose, che gli stessi ammalati ritenuti dai medici incurabili se ne ritornano perfettamente guariti.

Io non mi prefiggo però di descrivervi il sito, né di spiegarvi l’efficacia di questi bagni, ma di dirvene soltanto quanto giova all’argomento di cui intendo trattare.

Tutti gli ammalati vi rimasero per più di tre settimane, finché conobbero dal miglioramento avutone, che erano ormai in grado di andarsene. Se non che, giunto il momento della partenza, caddero piogge si grandi e inusitate, da far pensare che Dio avesse dimenticata la promessa fatta a Noè di non più distruggere il mondo con le acque: ogni capanna ed ogni casa di Cauderès ne fu si allagata, che fu impossibile dimorarvi. Per la qual cosa quelli che erano arrivati dalla parte della Spagna, se ne ritornarono prendendo la via dei monti, come meglio fu loro possibile; ed i più pratici delle strade da seguire, riuscirono più facilmente a mettersi in salvo.

I signori e le signore francesi invece, che contavano di restituirsi a Tarbes con la medesima facilità con la quale n’erano venuti, trovarono i piccoli ruscelli così in piena, che a stento poterono guadarli. E quando furono ala passo del torrente Bearnois, che nel venire avevano trovato meno profondo di due piedi lo rividero ora così gonfio e impetuoso, che ritornarono indietro per cercare il ponte, ma non più lo rinvennero: quel misero ponticello di legno era stato portato via dalla veemenza delle acque.

Alcuni poi, avendo voluto riunirsi in gruppo, per far argine alla rapida corrente, vennero con tanta violenza trasportati via dalle onde, che coloro che stavano per imitarne l’esempio, ne furono del tutto dissuasi.

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Teatro, Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e Titania, Regina delle Fate


Titania Regina delle Fate

Titania Regina delle Fate – Johann Heinrich Füssli Matrimonio di Titania

Teatro: Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e Titania, Regina delle Fate.  Il nome dato alla Regina delle fate dalla tradizione popolare inglese è Mab; e “Regina Mabla chiama anche Shakespeare in un delizioso passo di Romeo e Giulietta in cui ne descrive il cocchio (atto primo, scena quarta). Trasportandola nei boschi di Atene, Shakespeare e dato ha dato un nome classico alla Regina delle fate, calandolo, a quanto pare, da Ovidio che da quel nome, tra l’altro, a Diana e anche a Circe. Mentre gli antichi commentatori di Shakespeare pretendevano di stabilire una equazione: Titania – Diana – Elisabetta (si sa che la vergine regina era frequentemente designata come Diana), si tende oggi a ritenere che Shakespeare pensasse all’epiteto della maga Circe.

Sogno di una notte di mezza estate

Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare

Infatti che complimento sarebbe stato per la regina farle corteggiare Bottom con la testa d’asino? Mentre si possono trovare analogie tra l’episodio di Ovidio di Circe e picco e certi elementi del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Anche Titania, come OberonRe dei Folletti – è in preda alle passioni umane che agitano gli dei della Grecia; essa ama esercitare il suo impero sulle piccole cose, per esistere con femminile ostinazione alla prepotenza di Oberon; se si innamora, riversa la sua tenerezza in dolci parole delicate attenzioni e, proprio come capita alle sue sorelle umane, si innamora di un asino: trasparente figurazione della capricciosi età d’amore.

Ripresa da Christoph Martin Wieland (1733-1813) nel suo poema eroico comico Oberon, Titania accentua il suo carattere appassionato ed estroso. Comprensiva di ogni debolezza femminile non può infatti condannare Rosetta, che ha un momento di leggerezza, e riesce con la sua astuzia a trionfare sul severo Oberon, il quale vorrebbe svergognare la colpevole. Titania capisce che aprire gli occhi a un marito cieco non è sempre rendergli un servigio, ed essa, che ha in vista la felicità degli uomini più che la loro virtù, fa in modo che la moglie riesca a ingannarlo a occhi aperti.
Anche quando il consorte la scaccia dal suo cospetto, Titania si mostra squisitamente femminile: sa come il suo Oberon la ami e, conoscendo gli uomini, sa anche assai bene che sarà più lui di lei a soffrire della separazione, perciò nel suo piccolo cuore gli perdona.
Poi s’adopera tutta ad aiutare la coppia umana dei puri e fedeli dal cui destino dipende il proprio. Fa di tutto per alleviare le pene di Rezia: è lei che assiste “avvolta in rosea luce”, piena di compassione, la giovane donna, facendola partorire nel sonno e senza toglie il bambino.
Titania vuole la felicità per sé e per gli altri, null’altro che questo. Non è pedagogica e neppure egoista. Titania è tutta inglese, figlia di Shakespeare e di Shaftesbury, tutta grazia se non tutta virtù umana e filantropica come s’addice a una fata dell’epoca dei lumi.

Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, riassunto


Gargantua e Pantagruel

Gargantua e Pantagruel, 1542, capitolo 5

Riassunto di Gargantua e Pantagruel di François RabelaisGargantua è il nome di un gigante celebre nelle tradizioni popolari (in specie della valle del Rodano) per la sua voracità. Le sue prodezze erano narrate già all’inizio del 16º secolo, in libretti di carattere piuttosto semplice e rozzo: uno di essi fu rimaneggiato da François Rabelais (1494-1556), il quale ha poco a poco si innamorò dell’argomento e da quelle figure di giganti prese le mosse per il suo grandissimo romanzo (una serie di cinque romanzi) La vie de Gargantua et de Pantagruel. Il suo Gargantua, figlio di Grandgousier – re d’Utopia – e di Gargamelle (viene partorito da un orecchio!), è un gigante grottesco, bonario, docile a ogni impulso di natura, ribelle a ogni artificio, come a ogni ambizione dannosa.

In lui, e nel figlio Pantagruel, François Rabelais esprime appieno il suo essere a trecentosessanta gradi uomo del Rinascimento, il suo convinto naturalismo, ed è riuscito a esprimerlo con tanto maggior vigore, in quanto la sua tempra di artista aderiva con felice entusiasmo a tutto ciò che è concreto, immediato, senza escludere nulla di quanto appartiene all’umanità, anche il più elementare e materiale.

Gargantua e Pantagruel

Gargantua e Pantagruel, edizione italiana del 1900

Nella prima parte dell’opera, tra forme e colori vivaci e intensi, e giochi festosi di parole, Gargantua domina con un senso quasi primitivo del riso, come sfogo di una sanità e di un’energia esuberanti. Più istintivo e immediato di Pantagruel, nella creazione del quale problema è più consapevole e più attento al significato degli episodi e delle immagini, Gargantua forza di natura, ma di una natura sollevata dalla cecità dei primordi e capace di compiacersi di sé e della propria freschezza.

Le sue proporzioni, più che enormi, sono indefinite: talora smisurate, se un intero popolo può abitare nella sua bocca, talora “solamente” gigantesche, se con un ramoscello di salvia può pulirsi i denti; e questo stesso ondeggiare di proporzioni è nel suo spirito, ora ingenuamente fanciullesco, ora serenamente filosofico, ora allegramente feroce. Ma è, questa, la stessa apparente incoerenza della natura, i cui confini possono aprirsi all’infinito ora chiudersi in un piccolo mondo, e le cui energie possono essere benigne o crudeli. E, come per la natura, alla di sotto di questa balda inconsistenza vi sono in Gargantua un unico, continuo e felice senso di vita, una genuina e incorruttibile innocenza. Così creato, il personaggio acquista tuttavia una più precisa umanità nel prosieguo del libro, imponendosi come la figura del re bonario e saggio pur nel suo immenso vigore, che sconfigge il maligno assalitore Picrochole e sa così allegramente punirlo. E quando viene poi a predominare nell’opera la figura del figlio Pantagruel, Gargantua, il gigante semplice e buono, si ritrae un po’ nell’ombra, assume la parte del padre ignorante ma saggio ed esperto il quale, in un’epoca nuova, compreso i benefici di quella cultura che egli non poté avere, li raccomanda al figlio in una lettera rimasta famosa. Onde lo stesso personaggio si precisa, e acquista nel complesso più ricco significato.

Egli è pur sempre una potente formazione di in composto e fecondo naturalismo; ma di un naturalismo che nel suo buon senso già sa intravedere la possibile perfezione delle sue ancora ineducate facoltà, il nuovo mondo che da esso potrà e dovrà nascere.

Henry Becque, La Parisienne e lo scandalo dell’adulterio a teatro


Henry Becque

Henry Becque – foto di Nadar

Henry Becque, La Parisienne e lo scandalo dell’adulterio a teatro. Clotilde du Mesnil è la parigina nella commedia di Becque del 1885 che che produsse l’effetto scandalo che ci si poteva attendere nella società dell’epoca. La protagonista della commedia si accomoda nel classico triangolo tra il marito e l’amante dirigendo accortamente la sua vita pratica e sentimentale. E’  piena di attenzioni verso lo sposo, è sinceramente affezionata all’amante, benché annoiata della sua gelosia .

Quando un capriccio la prende per un altro uomo, la sua abilità si dimostra nel nascondere la cosa non al marito, sempre ignaro, ma all’amante, più sospettoso e vigile. Poi, dopo la breve avventura, torna a lui, alla tranquilla vita consueta, quasi monotona, dove una finzione, una colpa è diventata la norma tranquilla.

Creazione coraggiosa e ardita, colma di feroce ironia nella quale è fissata la deformazione che il pacifico adulterio borghese porta nell’anima femminile di fine Ottocento. La Clotilde du Mesnil di Henry Becque è personaggio denso di verità e di vita, nella sua amoralità quotidiana.

Innumerevoli sono state le copie di tale commedia nella storia del teatro moderno, più o meno sbiadite, come si conviene ai tentativi di cavalcare il successo “scandaloso” che ebbe il testo teatrale di Becque La Parisienne.

San Donà di Piave, la battaglia del Piave e la prima guerra mondiale


Battaglia del solstizio

Battaglia del solstizio – Artiglieria italiana sulla linea del Piave

San Donà di Piave, la battaglia del Piave e il Monte Peralba – San Donà è legata al Piave, come questo fiume è legato al Monte Peralba (2694 metri) che gli dà la vita e la storia la accomuna per tre memorabili battaglie che, nel corso della prima guerra mondiale – 1915-1918 – si svolgono sulle sue rive tra italiani e austro-tedeschi. La prima battaglia – dal 9 al 15 novembre 1917 – sul medio e basso corso del fiume Piave, ferma gli austriaci nella loro avanzata dopo Caporetto.
La seconda battaglia del Piave – dal 15 al 23 giugno 1918, è tra le più grandi combattute nella prima guerra mondiale e quella che, per immani speranze ripostevi dai nemici, per le enormi perdite subite da entrambi gli schieramenti e per l’effetto morale sconfinato, segna e assicura agli alleati la vittoria finale.
Da parte degli italiani fu soprattutto una battaglia di resistenza contro l’offensiva che il nemico aveva preparato da tempo e dalla quale sapevano sarebbe derivata per loro o la vittoria o la definitiva sconfitta.
La terza volta, sul Piave la vittoria – già fortissima a giugno – diventa luminosa con la “battaglia di Vittorio Veneto” (dal 23 ottobre al 3 novembre 1918) che determina l’avanzata di tutto l’esercito italiano e la distruzione dell’impero Austro-Ungarico.

La pace doveva essere conclusa dagli italiani e dagli alleati sotto le mura di Vienna. Come sempre, l’incomprensione, la gelosia, l’ingratitudine perpetuarono la distruzione e la rovina di tutti.
Nessuno volle prevedere, prevenire, provvedere.

Giugno 1918.
Iniziandosi la grande azione che porta il nome di “battaglia del Piave” o “battaglia del solstizio” non la si può non ricordare i sacrifici, le glorie, la resistenza vittoriosa delle truppe del Grappa e dell’Altopiano dei Sette Comuni. È qui, che il nemico austro-tedesco sferra l’urto principale, e, da lassù, la Sesta Armata getta dal primo giorno la premessa della vittoria.
Il giugno del 1918 ci ricorda anche la difesa del Tonale del giorno 13. E, la quarta Armata, comandata dal generale Gaetano Giardino, che dalle prime ore di giugno 1918, prevede, previene, provvede.

Gli austro tedeschi e i loro alleati prevalevano militarmente sul fronte occidentale e, anzi, sembravano vicine alla vittoria. La storia del mondo era giunta ad una svolta decisiva. L’esercito italiano era finalmente la nazione in armi.
L’Italia credente e operosa generosamente si prodigò come non mai.
Le madri offersero alla Patria anche gli ultimi figli, i cittadini all’erario gli ultimi risparmi, nei campi, nelle officine si lavorava con rinnovato fervore; le requisizioni vennero spremendo le ultime risorse.

La nazione accettò ogni sacrificio, e tutti si protese in uno sforzo incomparabile. L’esercito italiano era consapevole e deciso all’appello del Re. Soldati e cittadini furono un esercito solo, una volontà sola, un’anima sola. Dalle Alpi, alla Sicilia, alla Sardegna, alle isole più lontane: dai villaggi remoti, dalle grandi città e dalle piccole si levò un solo grido: “resistere! Resistere!”
Naturalmente anche il capo di stato maggiore austro-ungherese, Von Arz, preparava i suoi piani e i suoi soldati, e l’11 giugno 1918 dichiara: “possediamo un numero di divisioni superiore a quello che il nemico può opporci. Le nostre unità sono salve, agguerrite, complete; le nostre artiglierie più potenti delle avversarie. Attacchiamo il nemico in modo concentrico, simultaneo, su un fronte di grande sviluppo. Le sue scarse riserve non gli basteranno a fronteggiare la nostra pressione: esse si logoreranno presto in tentativi inutili. La nostra vittoria sarà tanto più facile e decisiva, quanto più rapida e risoluta sarà la nostra irruzione.”

Non sempre, però, “la guerra insegna la guerra”. Fu stabilito che quando l’imperatore Francesco Giuseppe sarebbe entrato a Vicenza, l’arciduca Federico, nella sua qualità di decano dei Marescialli avrebbe offerto a Sua maestà con solenne cerimonia un prezioso bastone da Maresciallo.

(…) Continua

Dall’orazione celebrativa del Generale Elia Rossi Passavanti per le celebrazioni del 40º anniversario della vittoria della Battaglia del Solstizio.

Ricette risotti: risotto alla cappuccina – ristoranti a Milano provati da Francesco Tadini


risotto alla cappuccina

Ricetta del risotto alla cappuccina – come si cucina?

Ricette risotti: risotto alla cappuccina cucina e  ristoranti a Milano. Come si fa e si prepara il risotto alla cappuccina? Dovrete indovinare in quale locale milanese ho provato questa specialità e me la sono fatta spiegare, innanzi tutto! Poi vi dico cosa serve per cucinare uno dei più deliziosi risotti del pianeta: cipolle, acciughe, brodo di pesce (in alternativa, per i più ricercati – o folli chef? – il brodo di rane), una quantità minima di vino Marsala, formaggio da grattare (di preferenza, e per il gusto più accentuato: parmigiano reggiano.

Preparazione della ricetta del Risotto alla Cappuccina

1 – soffriggi in olio una cipolla tritata con amore e cura

2 – unisci al letto rosolante di cipolla la polpa di 6 acciughe (mi raccomando: pulite e senza spine) e lasciate che la padella amalgami l’unione di mare e terra.

3 – aggiungi 450 grammi di riso per risotti e attendi mescolando almeno un paio di minuti – affinché il riso si impregni dei sapori – e rosolando

4 – inizia a bagnare il risotto alla cappuccina con “quasi” un litro di brodo di pesce (o, come spiegavamo al principio) di rane.

5 – a questo punto bisogna innaffiare il riso – che comincia a farvi venire l’acquolina in bocca – con il vino Marsala.

6- il tempo di cottura sarà di circa 18 / 20 minuti – a seconda della tipologia e della qualità del riso che vi siete procurati.

Alla fine condite con parmigiano reggiano (quando c’è da insaporire lo preferisco sempre al grana padano o altri formaggi simili) e aspettate un minuto o due prima di servirlo in tavola.

Se siete stati degli chef provetti la “vostra” ricetta farà spalancare fauci e sentimenti ai vostri invitati a tavola.

… Nei ristoranti di Milano, ormai – siamo nel 2016 e ci mancherebbe altro! – si può trovare qualunque specialità regionale, nazionale … intergalattica. Se avete capito in quale ristorante ho avuto l’onore – e la gola – di assaggiare la Cappuccina (è un luogo che si distingue per la capacità nella preparazione dei risotti) fatemelo sapere. Per aiutarvi posso rivelare che il locale si situa in centro, in un raggio (in linea d’area) non superiore al chilometro dall’ormai celeberrima piazza Gae Aulenti.

Buone ricette e eccellenti scorpacciate a tutti da Francesco Tadini!

Aria condizionata, pompe di calore e climatizzatori ad elevata efficienza energetica a Milano


aria condizionata Milano

aria condizionata Milano – impianti di condizionamento e pompe di calore

Milano – Aria condizionata, pompe di calore e climatizzatori ad elevata. Oggi a Francesco Tadini non va solo di fare pubblicità, ma di porsi in atteggiamento (o sentimento?) di autentica adorazione per coloro i quali inventano, brevettano, installano e manutengono una delle categorie di “innovazione tecnologica” a più alto indice di godimento.

Detto a Milano il 15 agosto 2016 – come in qualunque altro Ferragosto, del resto – suona facile, direte voi, miei ipocriti lettori! Ma abbiate almeno pietà per chi resta in via Niccolò Jommelli 24 a presidiare Spazio Tadini perché finiscano – lavoratori seri – l’installazione di un impianto di condizionamento con pompe di calore ad aria (la più frequente, tecnicamente, è quella aria-aria, adatta ad estrarre calore dall’aria dell’ambiente riversandolo all’interno oppure all’esterno di un qualunque edificio, a seconda della stagione).

Da pochi giorni ho potuto azionare l’aria condizionata – parte dell’impianto, diviso in macchine singole è già operativo – e sto vivendo una sorta di Estasi. … Punto primo (bellissimo): Milano è semi-deserta e si presta a delle pedalate centro – periferia favolose. Punto secondo: il rientro a casa – con le poche provviste indispensabili – è reso letteralmente mitico dal funzionamento di questi climatizzatori a elevata efficienza energetica: in poche parole producono un freddo polare a basso costo e rispettando il pianeta.

Le idee si chiariscono. Il cervello riesce a produrre dei contatti insperabili prima. E, detenendo il Tadini un numero di neuroni che si contano sulle dita di una mano, viene messo in condizione persino di affrontare una tastiera qwerty semi-sporca come questa e gettare al vento internettiano parole in libertà.

Libero da condizionamenti. Ma condizionato del tutto.

Gustav Klimt e Secessione sul sito di Francesco Tadini: a cosa serve la storia dell’arte?


arte Milano

arte – Francesco Tadini ha pubblicato un nuovo articolo sul sito personale

A cosa serve la storia dell’arte? Gustav Klimt e Secessione viennese sul sito di Francesco Tadini – nato il 1961 a Milano, colui che ha fondato, da “gallerista” e insieme alla giornalista Melina Scalise lo Spazio Tadini di via Jommelli 24 – ha appena pubblicato sul suo sito serio (Friplot è il blog demenziale), a questo LINK un post divulgativo che riguarda un “pezzetto” di storia dell’arte. Si tratta di un articolo di Hermann Bahr (commediografo, polemista e saggista) uscito sulla rivista degli artisti della Secessione: “Ver Sacrum”, nel gennaio 1898. L’organo dei secessionisti che fu fondato da Gustav Klimt. In questo pezzo Bahr insiste sulla possibilità che in Austria e, in primo luogo a Vienna, si possa fare finalmente arte! Parafrasando l’autore, grande sostenitore di Klimt e della Secessione: chi a Vienna ha qualcosa da dire di nuovo – chiama questi rinnovatori dell’arte “agitatori” – non deve aver paura del ridicolo, giacché è una fase di passaggio pressoché obbligatoria per chiunque voglia cambiare qualcosa.

“I viennesi sono condannati a rimanere piccoli industriali o devono cercare di diventare artisti?”: Francesco Tadini riporta fedelmente questa domanda – prioritaria per Bahr – anche con l’intento di riattualizzarla calandola nella situazione dell’arte contemporanea – del mondo dell’arte – di oggi? Quello che è certo, credo, è che l’arte deve liberarsi, oggi come allora, dall’idea che l’opera prodotta dall’artista debba essere soprattutto – e in primo luogo – merce.

Bisogna guardare indietro, per andare avanti, talvolta? Forse – insiste Tadini – lo studio della storia dell’arte serve anche a questo: non solo a redigere un interminabile elenco di aneddoti e collegamenti tra chi l’arte la fa e chi ne parla per mestiere!

Cinema Ferragosto 2016 a Milano: Arianteo, film all’aperto nel cortile di Palazzo Reale


Ferragosto Milano 2016

Ferragosto Milano 2016 – foto di Francesco Tadini, titolare del centro culturale di via Jommelli 24, Spazio Tadini

Cinema Ferragosto 2016 a Milano: Arianteo per le vacanze in città. La metropoli non chiude mai. I film in programmazione all’Arianteo – promosso da Anteo spazioCinema e Assessorato alla Cultura del Comune di Milano – sono tutti da vedere. Il cinema all’aperto nel cortile di Palazzo Reale ci assicura una scorpacciata per tutto il weekend di Ferragosto (sabato 13, domenica 14 e lunedì 15). Sabato 13 agosto 2016, ore 21.15: Il ponte delle spie (di S. Spielberg con T. Hanks, M. Rylance – USA – 140′), ambientato nel periodo della guerra fredda; Domenica 14 agosto, 21.15: Mustang (di D. G. Ergüven con G. Sensoy, D. Z. DogusluFrancia, Germania, Turchia, Qatar – 94′), che racconta la lotta per la libertà di cinque sorelle  contro poteri religiosi e patriarcali ed è ambientato in un paesino della Turchia contemporanea; Lunedì 15 agosto, 21.15: Irrational Man (di W. Allen con E. Stone, J. Phoenix – USA – 95′), presentato al Festival del cinema di Cannes nel 2015 fuori concorso, che narra di Abe Lucas, professore di filosofia in crisi esistenziale…

Per chi, oltre a godersi la programmazione del cinema Arianteo a Palazzo Reale, volesse “animarsi” accanto all’acqua, suggerisco un Ferragosto a bordo piscina ai Bagni Misteriosi di Milano (la ex Piscina Caimi). Il 15 agosto la piscina rimarrà aperta in misura straordinaria fino alle 20. E dalle 18.30 è programmata la Festa di Ferragosto, alla quale partecipa – dalle ore 18.30 – la Dirty Dixie Jazz Band. 

 

Ristoranti, cocktail bar e parchi di Milano ravvivano la scrittura creativa demenziale


Torre Unicredit Milano

Torre Unicredit Milano – foto di Francesco Tadini, fondatore di Spazio Tadini a Milano

Ristoranti, cocktail bar e parchi di Milano ravvivano la scrittura creativa. Demenziale, si intende. Lasciarsi andare. Perdersi. Fare a brandelli ogni logica di consumo avveduto o di utilizzo razionale del tempo. Ecco l’effetto che fanno al mio tempo libero. E Milano libera energie immensurabili, con tutti i suoi nuovi locali, nuovi quartieri, nuovi territori di visione. E’ talmente elevata la quantità di cibo per gli occhi (da quando ero ragazzo, negli anni Settanta è aumentata esponenzialmente) che l’indigestione è massima.

Ruttino per digerire e via… partendo dal nuovissimo quartiere che s’impernia su Piazza Gae Aulenti – quello della fotografatissima Torre Unicredit – per “scendere” alla vitale via Padova, dove annualmente viene addirittura organizzato una sorta di festival, per raccontarla. Rotolando di bici in via Ventura, a Lambrate – dove scorrono i popoli del design per il Fuorisalone – e risalendo fino agli immarcescibili Navigli. Milano è una bellezza. Una città dalla quale non mi separerei facilmente.

Detto questo, Milano mi urla: “mister Tadini, non hai abbastanza tempo libero per godere tutto il lifestyle che ti propongo! Non sarai mica un milanese imbruttito? E io rispondo …

Cosa rispondo? C’è qui qualcuno che potrebbe aiutarmi con una risposta qualunque, anche da Baci Perugina, anche da citazioni prese online in tutta fretta, anche scandagliando un angoletto di memoria scolastica? Intanto porgo l’orecchio, sono tutt’occhi… e continuo a divorare tutta questa Milano / immagine che mi rimpinza come un’oca da allevamento con l’imbuto (sapete, vero, come fanno scoppiare il fegato alle oche per la produzione della prelibatezza culinaria?). … Mi reco in uno dei peggiori ristoranti di Milano, poi in uno dei più fighetti cocktail bar  … e termino con un officinalissimo parco cittadino. Lì, nel verde, con la mia bicicletta al fianco, seduto su una di quelle meravigliose panchine vintage che non passano mai di moda, contemplo l’insieme delle cose. Attendo migliori illuminazioni.

Francesco Tadini

Milano 15 agosto: cosa è aperto a Ferragosto 2016? Ristoranti? Supermercati?


ferragosto 2016 Milano

ferragosto 2016 Milano

Milano 15 agosto: cosa è aperto a Ferragosto 2016? Negozi? Musei? Sedi anagrafiche del Comune? Supermercati? Cinema? Teatri? Ristoranti? Premesso il taglio (tipico da Francesco Tadini in versione tempo libero) demenziale di questo blog – che non nasce con lo scopo di informare, ma di conformare (cosa?) – confermiamo che a Milano una certa quantità di esercizi commerciali – detti anche negozi – apriranno come non esistessero le vacanze. Non andranno in vacanza i milanesi che hanno perso il biglietto, così come quelli che hanno finito i soldi un attimo prima dell’acquisto del titolo di trasporto. Come il sottoscritto Francesco Tadini, resteranno in città i fanatici dell’area metropolitana, delle piantine che crescono tra le crepe dell’asfalto o del cemento, del Parco Lambro, del Forlanini, del Parco Sempione, dell’Idroscalo e, dulcis in fundo (ma in mezzo a Milano) dei Giardini Pubblici di Palestro / Porta Venezia.

Potremo, a Ferragosto, scorazzare in bicicletta con pochissimo traffico senza distinzione di orari di apertura (o orari di chiusura) per tutte le vie cittadine, cantando “Oh mia bella Madonnina”. Potremmo anche trovarci, fare gruppo, unirci ad altri gruppi e, con loro, organizzare una pizzata in una delle mitiche pizzerie milanesi che non chiuderanno il 15 agosto 2016.

Oppure: collegare ad una batteria portatile una macchina gelatiera e combinare un flash mob a Pero con una enorme mangiata di gelato per la pace nel mondo. Considerate l’idea che alle persone – ma si unirebbero anche tanti turisti in questo agosto di Milano – piace occupare il proprio tempo libero (o sfigato, a seconda dei punti di svista) con un piccolo “sforzo” da dedicare alle Grandi Cause. Non sarebbe importante e fantastico?

Meteo Milano: oggi e domani e dopodomani con un’occhio al Satellite Meteosat


meteo Milano

meteo Milano – foto Francesco Tadini

Meteo Milano oggi e domani e dopodomani con un’occhio al Satellite Meteosat che fornisce immagini in diretta. E’ un’abitudine equivalente a quella di leggere l’Oroscopo. E’ una forma di lieta schiavitù: sono meteo dipendente da molti anni, ormai. Pur convinto della difficoltà statistica di redigere previsioni meteo che si spingono ai 15 giorni, le guardo, le divoro, le digerisco pluri-quotidianamente.

Quand’ero ragazzo, il mio caro amico Maurizio le faceva lui, le previsioni del tempo: per Milano o per qualunque località noi ci trovassimo – inseparabilmente (o quasi) insieme – con la passione di chi, poi, lo avrebbe fatto di mestiere (cosa che ha fatto, poi, per un certo periodo di tempo). Meteo amico. Meteo possibile e impossibile. Tuoni, fulmini e saette. Tempeste e repentini miglioramenti della condizione metereologica. Cieli sereni interrotti da nuvoloni, cirri, cumuli e quant’altro…

A Milano che tempo fa? In Lombardia che tempo farà? …. che poi, per la maggior parte del tempo – non meteo – non ci serve veramente sapere se dobbiamo comprare un ombrello o un cappello. Avete presente che trent’anni fa l’ombrello (inseparabile compagno dell’uomo e della donna eleganti) era un oggetto piuttosto costoso? E che perderlo (come faccio tutte le volte che me ne porto uno dietro) rappresentava un danno economico rilevante? Oggi l’ombrello è acquistabile a pochi (a volte 2) EURO. Li fanno in cina, gli ombrelli? Perché si rompono alla prima folata di vento teso. Avete notato o sono solo io – Francesco Tadini – lo sfigato con l’ombrello rotto in centro a Milano con gli occhi puntati alla ricerca di un miglioramento del Meteo?

 

Il gallerista Francesco Tadini a Milano, via Jommelli 24


Francesco Tadini

Francesco Tadini è a Milano, in via Jommelli 24

Il gallerista Francesco Tadini a Milano, via Jommelli 24. Come è universalmente noto… Ma di che cosa sto parlando? Dell’universo? Ripartiamo dal gallerista: Tadini non è un mercante d’arte, ma un grande appassionato che, grazie al super-supporto di Melina Scalise riesce a organizzare a Spazio Tadini, nelle stanze di una vecchia e gloriosa tipografia, mostre d’arte, eventi, spettacoli, concerti ed altro. Allora come posso definire il Tadini vivente di via Jommelli 24? Un organizzatore appassionato? Si, va bene così. Per parlare a ruota libera. Per continuare, poi, con le due ruote della bicicletta inseparabile. In che senso? Nel caso in cui io non me ne sia ancora reso conto, la bicicletta che mi porta a spasso è l’equivalente di un compagna di vita. E’ lei che decide dove andare ed è – ancora lei! – che si impegna alla spasimo per farmi scegliere le mostre da realizzare a Spazio Tadini. La bici è intelligente? Un semplice mezzo da trasporto? Ma che cosa sto cercando di dire? In realtà niente di significativo: il Blog Friplot è puro flusso di coscienza, action painting pedalato, da via Jommelli 24 al mondo. Da Spazio Tadini alla via accanto o nel cuore di questa città di Milano che amo più qualunque altra Milano!

Prosit.

Piuttosto: guardate il sito serio al LINK !!

Francesco Tadini

Foto divertenti? E fantastiche con @akibasad


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Piazza del Duomo balla il sirtaki per la Grecia e il suo popolo


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Friplot blog Milano – foto @itisartime


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